mercoledì 23 novembre 2011

STORIA DELLA SARDEGNA: L’INSURREZIONE DEL 28 APRILE 1794




Il pensiero del Pitzolo espresso all’amico si divulgò in città. Il Viceré, convinto dell’esistenza di un piano di insurrezione, tendente ad espellere tutti i piemontesi, fece arrestare gli avvocati Vincenzo Cabras ed Efisio Luigi Pintor Sirigu, suo genero. 
“Per errore invece di Efisio Luigi venne catturato il fratello Bernardo. Efisio Luigi poté cosi percorrere a cavallo le vie del quartiere Stampace sollecitando il popolo ad insorgere e facendo suonare a martello le campane della chiesa di S. Anna. 
Dopo Stampace insorsero anche i quartieri della Marina e di Villanova, quindi il popolo, dopo aver liberato i forzati, abbattuta la porta del Castello, chiese la liberazione dei due arrestati e ne ottenne la consegna”. 
In seguito ad alcuni scontri armati contro “le truppe continentali e svizzere” i rivoltosi, “a coronamento della vittoria”, arrestarono “tutti i militari e gli impiegati piemontesi, savoiardi e nizzardi, e le loro famiglie, che in un primo momento vennero ristretti in diversi conventi.” . 
I cagliaritani, ancora oggi, ricordano, orgogliosi, la famosa parola d’ordine imposta alle persone sospettate di essere continentali: “nara scisciri”. Quando la persona fermata non rispondeva con la pronuncia giusta cagliaritana, gli intimavano l’alt, dicendogli: “toccheti a Santa Rosalia”, cioè venivano reclusi nel convento di Santa Rosalia. 
“Nei giorni successivi le 514 persone arrestate a Cagliari vennero imbarcate, viceré compreso, su alcune navi appositamente noleggiate e fatte partire per il continente”. Questa insurrezione “fu un momento di vera e sentita unità: è per questo che il 28 Aprile è stato dichiarato, con apposita legge regionale, FESTA del POPOLO SARDO”. 
Dopo la cacciata dei piemontesi da Cagliari e da tutta la Sardegna, il governo dell’isola venne assunto dalla Reale Udienza, così come voleva la prassi durante l’assenza del Viceré. Il successo dell’insurrezione costrinse il governo di Torino ad accettare le rivendicazioni dei sardi, fatte, a suo tempo, dagli Stamenti con le famose cinque domande; non solo ma si adoperò anche, tramite l’arcivescovo di Cagliari Monsignor Melano “a sollecitare direttamente dal re l’amnistia per i fatti del 28 aprile 1794 e del luglio 1795”. 

GIOVANNI MARIA ANGIOY

Giovanni Maria Angioy - Ritratto

Egli nacque a Bono, nel Goceano, nel 1751 da una nobile famiglia. “Conseguita la laurea in diritto civile e canonico, si avviò alla libera professione facendo la pratica legale… dopo partecipò al concorso per la cattedra di Istituzioni civili e lo vinse”. 
Contemporaneamente all’insegnamento svolse le mansioni di giudice della Reale Udienza, la massima magistratura isolana, e di assistente del reggente la Reale Cancelleria, la più importante carica dopo quella di viceré. 
“Con l’arrivo del nuovo viceré, Filippo Vivalda, si manifestarono a Cagliari “profonde divergenze tra i progressisti e i moderati”, i partiti che avevano guidato l’insurrezione del 28 Aprile, in merito alla nomina di alcuni esponenti sardi ad alcune importanti cariche “decisa in modo unilaterale dal Governo di Torino”; nomina non concordata con le autorità sarde. In modo particolare, non vennero accolte favorevolmente le nomine di Girolomo Pitzolo e del Marchese della Planargia, perché i due non si sarebbero attenuti al rispetto delle proposte avanzate dalla Commissione degli Stamenti inviata a Torino; quindi i due vennero ritenuti traditori. 
Il contrasto fra i partiti andò accentuandosi anche a causa del comportamento ambiguo del vicerè Vivalda, sospettato di adoperarsi in favore del partito dei moderati; comportamento che avrebbe provocato i progressisti o giacobini, come li chiamavano i moderati. Si arrivò quindi all’arresto (1795) di Girolomo Pitzolo e del Marchese della Planargia, che verranno, poi, “uccisi, a furor di popolo, secondo i giacobini, ed invece da emissari dei giacobini, secondo i moderati”. 
Intanto andava accentuandosi il malcontento degli abitanti delle ville infeudate; gli stessi feudatari, strano, erano disposti a fare qualche concessione ai vassalli, come la sospensione della riscossione dei tributi feudali. I feudatari sassaresi invece erano contrari. Il Viceré si dichiarò favorevole alla proposta dei feudatari cagliaritani, che risultava gradita anche al partito dei progressisti. 
Il Governatore di Sassari, Santucio, invece, ordinò: “che non venissero eseguiti, senza la sua autorizzazione, gli ordini del Viceré e della Reale Udienza”. A questo atto di ribellione, il Viceré decise di intervenire, emanando “un Pregone nel quale si sconfessava il Governatore Santucio”. 
Si nominò anche una Commissione, che pubblicò nel sassarese il Pregone del Vicerè e, contemporaneamente, sollecitò la ribellione degli abitanti delle Ville contro i feudatari. 
L’effetto fu immediato, insorsero infatti contro gli abusi feudali alcune Ville, venne “assalito e distrutto il palazzo del feudatario pazzoide Antonio Manca, duca dell’Asinara”. Le stesse Ville “strinsero un patto col quale, mentre confermavano la loro fedeltà al re, esprimevano la volontà di non riconoscere più l’autorità del duca dell’Asinara e di riscattare il feudo. Patti analoghi furono stipulati in molte altre Ville”. Intanto venivano uccisi il Pitzolo ed il Marchese della Planargia. 
“Alla fine dello stesso anno migliaia di contadini armati assediarono Sassari e la guarnigione fu costretta alla resa”. I feudatari scamparono alla cattura, fuggendo, prima, in Corsica e poi in continente. Vennero arrestati il Governatore Santucio e l’Arcivescovo Della Torre, liberati poi per l’intervento del Viceré. Per ristabilire l’ordine nel Sassarese, dove “andava intensificandosi l’agitazione antifeudale” e, soprattutto, “per normalizzare i rapporti tra le due città più importanti dell’isola”, venne inviato “a Sassari, come Alternos vicergio, il giudice della Reale Udienza don Giovanni Maria Angioy”. 
Egli, secondo alcuni storici, sarebbe stato il punto di riferimento dei progressisti/giacobini, partito di cui “facevano parte magistrati, funzionari, liberi professionisti, intellettuali, artigiani, negozianti, popolani e anche molti elementi del clero, i quali nella loro azione trovarono in qualche momento l’appoggio del popolo della città… in lotta contro il feudalesimo. Molti di costoro ripiegheranno poi su posizioni moderate quando Angioy sostenne apertamente le rivendicazioni dei vassalli oppressi”. L’ingresso dell’Angioy a Sassari fu trionfale, “accompagnato da gran parte della popolazione, raggiunse il Duomo, dove era atteso dall’intero Capitolo, che celebrò il Te Deum di ringraziamento”. 
Egli si mise subito al lavoro, “e si acquistò larga popolarità per gli utili provvedimenti adottati. Poiché alcuni suoi amici facevano apertamente propaganda repubblicana, egli venne sospettato di connivenza, per cui si fece molti nemici (a Cagliari soprattutto), che contro di lui organizzarono una congiura”, comunque scoperta e rimasta senza conseguenza. 
L’Angioy “incontrò invece larghissimi consensi nei paesi, per la propaganda antifeudale, tanto che… i rappresentanti di molte comunità lo invitarono a visitare i villaggi per rendersi conto dei problemi ancora aperti”. 
Egli visitò numerosi paesi del sassarese e ai villici “chiedeva se avessero ancora l’intenzione di liberarsi della schiavitù del feudalesimo”. Avuta risposta unanimemente affermativa l’Angioy affermava che era tempo “de bos bogare sa cadena dae su tuiu”. 
Intanto a Cagliari i suoi vecchi amici, ora diventati moderati, venuti a sapere delle intenzioni dell’Angioy lo misero sotto accusa per tradimento e per convincere il Viceré a destituirlo propagarono la notizia che l’Alternos stava organizzando “quanta gente armata potea per andare a Cagliari a dichiarare il Regno Repubblica e farsi riconoscere per capo”. 
L’Angioy, dopo la visita in vari paesi del sassarese, si diresse verso Oristano, soffermandosi a San Leonardo. Qui giunto convocò i macomeresi a Santulussurgiu, però questi non accettarono l’invito “in quanto una circolare del Viceré vietava alle cavallerie di radunarsi senza sua autorizzazione”. 
A Macomer si verificò anche uno scontro armato, che impedì ai seguaci dell’Angioy di entrare nel paese. L’Alternos viceregio si recò a Santulussurgiu, dove fu ospitato dagli amici. Proseguì poi per Oristano, da dove intendeva chiedere un colloquio al Viceré, per esaminare la situazione del Logudoro. Attraversando i paesi di Bonarcado, Seneghe e Riola, diceva ai vassalli che non avrebbero più pagato le tasse ai baroni, ma al re. A “Riola si unirono al corteo molti armati, convocati dal notaio Domenico Vincenzo Liqueri”, sostenitore della politica angioyana.

Oristano - Ingresso a cavallo di Giovanni Maria Angioy

Ad Oristano, dove era seguito da circa 600 persone, l’Angioy venne accolto favorevolmente dalla popolazione e subito scrisse al Viceré “una lettera per informarlo della situazione del Logudoro e per chiedergli un abboccamento con lui… aggiunse che avrebbe atteso in armi la risposta e, in caso questa fosse stata negativa, avrebbe mandato una cospicua deputazione a S.M. il re”. 

Angioy invio al Vicerè Vivalda anche una seconda lettera per comunicargli, tra le altre cose, che intendeva rimanere a Oristano, onde evitare una guerra civile. 

“Appena ricevuta la prima lettera di Angioy”, Vivalda consegnò a don Raimondo Mameli le patenti per poter convocare le cavallerie miliziane dei vari villaggi e muovere contro Angioy”. Il medesimo Vivalda “pubblicò un pregone che accordava un generale condono a quella gente, sedotta e mal consigliata, che aveva preso parte all’insurrezione e, in un altro pregone, prometteva il premio di 1.500 lire sarde a chi presenterà alcuni di essi principali capi e seduttori morti; ed il doppio, cioè tremila parimenti sarde a chi lo presenterà vivo nelle forze della Giustizia dando le prove d’essere stato arrestato, o morto per di lui opera.”. 
Ad Oristano intanto Angioy attendeva la risposta del Vicerè, con la speranza del trionfo della sua causa: cioè non pagare più le tasse ai baroni ma al re.“Ma una lettera inviatagli dall’avvocato Cocco, con allegato il pregone che lo metteva al bando, lo indusse a lasciare Oristano ed a rientrare a Sassari. Inascoltate rimasero le richieste di aiuto rivolte ai villaggi che pure avevano attivamente partecipato al movimento antifeudale, quali Ittiri, Osilo, Florinas, Sorso. 
La vicenda di Angioy in Sardegna giungeva così all’epilogo”. Abbandonato da quasi tutti Giovanni Maria Angioy e i pochi amici rimasti con lui partirono da Portotorres per Genova; “ma colà giunti vennero espulsi perché forestieri. L’ex alternos soggiornò quindi in diverse città italiane”. Ma subito dopo la partenza dalla Sardegna di Angioy, a Cagliari il viceré Vivalda incaricava “il Giudice della Reale Udienza Don Giuseppe Valentino di procedere contro Angioy, Gioachino Mundula, Valentino Fadda di Sassari e gli altri capi d’insurrezione tendente al cambiamento del governo… ed in conseguenza all’usurpazione dei diritti di S.M. … Don Giuseppe Valentino doveva altresì disporre il sequestro e confisca dei beni dell’Angioy, del Mundula e del Fadda, e di quant’altri risultassero capi d’insurrezione”. Al Valentino arrivarono “molte denunce vere e false, sfogo talvolta di rivalità personali… vennero così arrestati anche molti innocenti che rimasero a lungo in carcere”. 
Valentino “adempì all’incarico ricevuto con uno zelo che lo stesso Manno dovette rimproverargli. Furono condannati a morte il medico Gaspare Sini, il commerciante Gavino Fadda, il consigliere civico Sebastiano Dachena, l’avvocato Gavino Fadda, Antonio Vincenzo Petretto e Antonio Maria Carta”. Dopo la morte di Vittorio Amedeo III, salì al trono Carlo Emanuele IV, “che per meglio chiarire la situazione dell’isola e quella personale dell’ex alternos invitò l’Angioy a Torino, garantendogli la liberta personale ed inviandogli anche i soldi per il viaggio”. 
A Torino Angioy venne ascoltato a lungo “dall’avvocato fiscale del regno Luigi Coppa, che lo invitò a soggiornare a Casale, dove avrebbe dovuto attendere le decisioni del re”. I suoi nemici sardi residenti a Torino intanto si attivarono per ucciderlo, ma Angioy, con l’aiuto di due fedelissimi amici, riuscì a sventare le loro manovre con la fuga in Francia; si trasferì a Parigi dove morì il 22 febbraio 1808.

Testo a cura di Giuseppe Mocci - tutti i diritti riservati.

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