Tra i luoghi importanti della mia infanzia, uno in particolare
è rimasto impresso nella mente e nel cuore: l’Orto di Michele, campo di tante battaglie, di scorrerie e divertimenti, luogo dove prendevano forma e vita i sogni e le
fantasie di un gruppo di ragazzini.
Tutto ebbe inizio intorno alla metà degli anni '70, tra i banchi della scuola elementare, là dove generalmente nascono le prime amicizie, quei legami che rimangono nel
tempo.
Ogni mattina io e i miei compagni, col
grembiule nero e il fiocco colorato, ci ritrovavamo nel piazzale del grande edificio scolastico di via Roma, prima che suonasse la campanella, e iniziavamo a parlare di calcio, di fumetti, di film
e cartoni animati visti alla televisione, immaginando imprese avventurose.
La scuola non era molto distante da casa mia. Per
raggiungerla prendevo la "scorciatoia", un sentiero sterrato, a lato di una lunga siepe di fichidindia, che attraversava i due grandi campi incolti dove ora sorgono la caserma dei carabinieri e le scuole medie.
L’edificio scolastico appariva all'improvviso maestoso, con l’ampio cortile circondato da un alto e spesso muro di cinta e da imponenti alberi di eucalipto e di cipresso ai lati (un muro che è rimasto anch'esso impresso nella mia memoria, sopra
il quale salivamo per rincorrerci e giocare con le cerbottane di canna).
Uno dei più cari amici di allora era Michele, appassionato
come me di fumetti (i famosi giornaletti) che compravamo con regolarità all'edicola di Giorgio. Aveva un vero talento per il disegno (ricordo ancora una bella raffigurazione di Tarzan fatta in prima o seconda elementare e i fumetti realizzati nel periodo delle scuole medie, sceneggiati e disegnati su un
quaderno scolastico).
La casa di Michele era sulla stessa via della scuola, a
circa duecento metri di distanza, in direzione di Baratili. Ed è proprio dietro il suo cortile che
si estendeva il famoso “Orto”, una proprietà appartenente a più famiglie che sarebbe diventata il
nostro parco-giochi, rifugio di tanti pomeriggi primaverili ed estivi.
Dal sentiero a lato della casa si raggiungeva l’area dell’ex
stabilimento delle gazzose (aveva funzionato fino
ai primi anni settanta; ricordo ancora le caratteristiche bottigliette di vetro
con la scritta F.lli Zoncu distribuite su cassettine di legno in tutto il paese).
All’interno del fabbricato c'era una gran quantità
di cassette piene di bottigliette vuote accatastate un po’ alla rinfusa ed altre attrezzature che occupavano tutto lo spazio disponibile. Nel piazzale esterno giaceva
un mastodontico macchinario giallo, in parte arrugginito, con
cinghie, grate e grandi lastre di metallo, che la nostra fantasia aveva trasformato in un “carro armato”
sul quale salivamo per condurre le “operazioni di guerra”.
Nell’area adiacente, occupata in parte da un agrumeto, i
reflui della fabbrica avevano creato una sorta di acquitrino permanente che avevamo ribattezzato “la palude”.
Più a nord dello stabilimento si estendeva un grande aranceto, delimitato ai lati da frangivento di cipressi altissimi sui quali, ricordo, ci
arrampicavamo per scrutare il panorama circostante e i
tetti del paese.
All’estremità di questo riquadro vi erano numerose piante di
nespole e un gran noce; più oltre - là dove l’orto confinava con Su cammiu de Sant’Rabara
- insisteva una struttura in cemento armato con
un pozzo profondo diversi metri nel quale vi erano residui di
carbone (era una fornace utilizzata in passato per produrre la calce).
Il lato destro della proprietà, invece, era occupato da Su cunzau de Tzia Silvia, un ampio terreno
coltivato generalmente a carciofi, alla cui estremità era stata realizzata una stalla dove trovavano ricovero alcuni bovini (ricordo che proprio in questo terreno Michele
aveva trovato una "figurina" egittizzante forse in avorio, sicuramente molto
antica, che mi aveva mostrato una delle prime volte che andai a casa sua).
Ecco, questa era la geografia dell'orto: uno spazio che, nella nostra fantasia, doveva essere difeso e protetto dai
numerosi nemici immaginari.
Come detto, qui passavamo i lunghi pomeriggi primaverili ed
estivi. Ci ritrovavamo quasi ogni pomeriggio a casa di Michele, accolti con straordinaria gentilezza da sua
madre, e da qui ci dirigevamo nel nostro territorio (eravamo sempre almeno quattro o cinque amici; tra questi Fabiano, Armando, Pietro, Franco e altri ancora).
Raggiungevamo Su Cunzau de Tzia Silvia e percorrevamo il
sentiero fino ad arrivare alla siepe nord, vicino alla stalla, dove avevamo
creato il nostro quartier generale.
La siepe, larga alcuni metri, era costituita da rovi, arbusti
e alberi non più alti di due-tre metri; la loro cima era avvolta da rampicanti che
creavano quasi delle “nuvole” verdi.
All'interno della siepe avevamo
creato dei passaggi e piccoli ambienti-rifugio. Uno di questi, forse il più
simbolico, era "l'armeria”, dove erano conservate le lance e gli archi
con le frecce di legno che avevamo costruito. Ci arrampicavamo in cima agli
alberi, sopra le “nuvole”, passando agevolmente da una all'altra, controllando
il sentiero sottostante e tutta la zona circostante. Era un vero divertimento!
Ogni tanto andavamo "in missione esplorativa" nelle altre zone dell’orto o
nelle paludi di “Godzilla” (cosi ribattezzate da Michele), ossia gli acquitrini
e i canneti del fiume dall’altra parte de Su cammiu de
Sant’Rabara.
Ricordo bene anche i giochi nel cortile di Michele e nei magazzini, soprattutto quando questi erano pieni di grano e di orzo appena
trebbiato che arrivava quasi fino al tetto.
All’ora della merenda, quando l’appetito si faceva sentire,
puntuali tornavamo a casa di Michele, dove sua madre ci preparava dei panini che
divoravamo con voracità.
Solo a tarda sera rientravo a casa stanco e contento, immaginando nuovi giochi e avventure.
Oggi che quei luoghi della nostra infanzia non esistono più così come erano,
inghiottiti in buona parte dalle costruzioni e dal cemento, rimangono i ricordi (resi più cari dalla nostalgia e dal passare del tempo) di un periodo spensierato.
gl
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