sabato 29 ottobre 2011

CÒNTUSU: "I DUE FRATELLI RICCHI" di Giuseppe Mocci


antica carrozza padronale (foto tratta dal libro Memorie di Riola...  di Virginio Sias)

"I du' fràdisi arrìccusu" 

In un paese del Campidano di Oristano, intorno al 1880, viveva una famiglia di ricchi proprietari con tre figli: due maschi e una femmina.
Del primogenito Arturo, il babbo voleva farne un avvocato o un notaio, per il secondogenito Angelo, invece, propendeva per la carriera ecclesiastica, anche per far contenta la moglie. Per la figlia femmina non aveva nessuna idea; avrebbe lasciato libera scelta alla moglie.
Alla moglie Annica, alquanto ignorante ma assai ricca, che gli chiedeva spiegazioni sulla professione notarile, Giovanni rispose:
Fillu miu ad'a bessì notàiu de tzittadi, ad'a aberri s’uffitziu in Aristãisi! 
Su notàiu fàidi is istrumèntusu de i dòmusu e de dònnia bẽi chi si bèndidi o si comparada”.
Annica si ricordò, allora, di un atto di acquisto fatto l’anno prima a Riola, presso uno studio notarile, ed esclamò:
Appu cumprèndiu! Bella… bella proffessiõi! 
Issàrasa fillu nostu ad'arrannessi ũ dattoreddu coment'e cussu de Arriora?”.
Giovanni, che non stimava affatto quel notaio, replicò:
T’appu nãu ca fillu nostu ad a fai su notàiu de tzittadi, ĩ Aristãisi, no me i bìddasa! 
Cùssusu non bàllinti nudda!
Intanto Arturo cresceva sano e forte, ma poco intelligente. Fin dall'età di quattro anni egli andava in campagna col padre, che lo portava spesso con sé, in calesse, quando andava a controllare le sue aziende.
Il ragazzo si innamorò subito della campagna e, soprattutto, degli animali da stalla.
All'età dei sei anni Arturo frequentò le scuole elementari comunali che, allora, erano appena di due anni; poi completò gli studi con il parroco fino all'età di dodici anni.
Il ragazzo, riferiva il parroco ai genitori, non era portato per gli studi; egli preferiva fare l'allevatore. Infatti spesso montava a cavallo e, a briglia sciolta, soleva raggiungere l'azienda familiare dove c'erano le stalle con tante bestie: vacche, buoi, cavalli, pecore e capre.
A tredici anni Arturo venne inviato a Oristano per frequentare le scuole superiori, con risultati modesti, nonostante venisse seguito in privato anche da un professore, il cui impegno veniva largamente compensato, soprattutto per le raccomandazioni.
Finite le superiori, Giovanni mandò Arturo a Cagliari, dove lo iscrisse alla facoltà di legge e istituzioni civili.
Il figlio Angelo, così chiamato perché molto bello e sempre sorridente, molto più giovane di Arturo, frequentava le prime classi delle elementari e faceva il chierichetto, con grande soddisfazione della madre, che vedeva in lui un futuro sacerdote.
Giovanni si trovava quindi ad avere tre figli in casa, ma, nel suo paese e dintorni, si diceva che di figli egli ne avesse generato almeno altri tre o quattro, con altrettante tzaracchèddasa, che, sistematicamente, faceva sposare con altrettanti suoi tzaràccusu.
Per questo vizietto, a Giovanni venne affibbiato il soprannome di Sribõi. Annica, naturalmente, era all’oscuro di tutto. Ella, per Angelo, ottenne dal marito la promessa solenne di farne un sacerdote; della figlia femmina avrebbe preferito un buon matrimonio, ma senza fretta.
Intanto Arturo, dopo una decina di anni all’Università, ottenne la laurea “in utroque”, così la chiamava, orgoglioso, il padre, che aveva speso un patrimonio per far ottenere al figlio il diploma di laurea.
Subito dopo la laurea di Arturo, festeggiata con una grande festa e la partecipazione delle famiglie benestanti del paese e dintorni, Giovanni gli fece fare la domanda di partecipazione al Concorso per Notaio presso l’Università di Cagliari.
Arturo, tuttavia, continuava a non provare alcun interesse per lo studio; preferiva scorrazzare in campagna, in sella ad un bello e focoso puledro, appena addestrato. 

                                                      foto d'epoca tratta da Sardegna digital library

Al padre raccontava sempre che dedicava allo studio per il Concorso da tre a quattro ore al giorno, mentre invece quelle ore le trascorreva a leggere libri messi all’Indice, spesso libri pornografici.
Arrivati ad una settimana dal concorso, fecero i preparativi per la partenza a Cagliari; partenza che avvenne due giorni prima della data fissata per l’esame.
Padre e figlio partirono in calesse, allora non c’era ancora la ferrovia, mentre su tzaraccu mannu partì con un carro, carico di ogni ben di Dio: vino, olio, formaggi, agnelli, maialetti, salsicce, bottarga e frutta di stagione.
Arrivato il giorno dell’esame, Giovanni, vestito a festa, accompagnò il figlio, con una carrozza appositamente noleggiata, presso la sede dell’Esame, raccomandandogli calma e concentrazione, con un sorrisetto di compiacimento.
La Commissione del Concorso era composta da tre professori universitari di cui uno Presidente, nonché da un funzionario come segretario.
Arrivato il turno di Arturo il segretario, gentilissimo, gli chiese le generalità e gli fece firmare il foglio di presenza. Arturo tremava, ansioso e con la paura di fare una brutta figura.
Il Presidente, con fare molto amichevole, lo chiamò per nome, premettendo che la commissione gli avrebbe fatto solo e soltanto tre domande, una per commissario, aggiungendo: “Giovanotto, calma e concentrazione!”
A questo punto, lo stesso Presidente iniziò l’esame formulando la sua domanda:
Cussus angionis chi funtis arribbaus a domu mia funtis stéttius pesaus de babbu tuu? 
Balla, bellus e bonus!”.
Arturo, rincuorato, rispose alla prima domanda:
Sìssada su Presidente, is anzõisi fùntisi pesàusu me ĩ sa sienda nosta!".
“Molto bene!” soggiunse il Presidente e diede la parola ad un altro commissario, che, rivolto all’esaminando, formulò la sua domanda:
Cussus proceddus chi appu agattau in domu mia funtis stéttius cussus puru pesaus de babbu tuu? 
Balla, bellus e bonus!”.
Arturo, giulivo, rispose alla seconda domanda:
Sìssada, su Professori!.
Alla fine, formulò la sua domanda il terzo commissario: “Senta giovanotto, questa è l’ultima domanda”.
Su sartitzu chi est arribau a domu mia no ad essi issu puru fattu da babbu tuu? 
E su binu, su casu, sa buttàriga e sa frutta è tottu de sa sienda de babbu tuu? Balla, tottu bellu e bonu!”.
Rispose, ormai tranquillo e sereno Arturo:
Sìssada Professori, esti tottu cosa nosta, fatta e prodùsia  ĩ sa sienda nosta!.
Finito l’esame, il Presidente proclamò Arturo vincitore del Concorso.

                                                                                        foto d'epoca di Cagliari 

Rientrato in albergo, il migliore della città, venne festeggiato il novello Notaio con un sontuoso e abbondate pranzo, cui parteciparono il padre e la Commissione al completo.
Il giorno dopo, padre e figlio rientrarono in paese, allegri e contenti. Già durante il lungo viaggio Giovanni promise al figlio che gli avrebbe subito acquistato un appartamento ad Oristano, dove avrebbe aperto il suo studio notarile; non solo, ma che gli avrebbe organizzato, a breve, una grande festa per il notariato raggiunto.
Purtroppo, però, in famiglia le cose non andarono più bene. Finì improvvisamente l’armonia. Infatti successe che, appena Giovanni rientrò a casa da Cagliari, la moglie, piangendo lo abbracciò e gli disse:
Pobiddu miu, za no esti nudda su chi e' sutzédiu aniseu! 
Fillu nostu, su pitticcu, 'nd’esti torrau de Seminàriu ca no ‘òidi fai prusu su predi”.
Giovanni, ammutolito e assai dispiaciuto per la brutta notizia, cadde sul divano e rimase muto per qualche minuto; poi ripresosi fece chiamare Angelo.
Questi salutò affettuosamente il padre e cercò di spiegare le motivazioni che lo avevano spinto a lasciare il Seminario. Ma non fece in tempo a concludere il suo lungo discorso che Giovanni, rosso paonazzo e furibondo, gli rispose: “Male, malissimo!”;
Tui de crasi as'a fai su procazu, bessiminchi de mes'e pèisi!.
A seguire pianti e urla di disperazione di Annica e figlia.
L’umore di Giovanni, da quel momento, cambiò: urla, bisticci con la moglie, scontroso con tutti. Non volle più festeggiare il notariato del figlio e seguì con poca attenzione anche le sue aziende.
Dopo qualche giorno dalla brutta notizia annunciatagli dalla moglie, Giovanni fu colpito da un infarto e ricoverato in ospedale a Oristano. Dopo una decina di giorni di ricovero rientrò in paese, ancora trasformato. Egli divenne taciturno, non intendeva più seguire la campagna e, fatto chiamare il suo collaboratore, gli disse:
Frantziscu, de oi tui dèppisi attendi a tottu! 
Deu, ze ddu bisi, seu mabàdiu meda. Dònnia dii mi dèppisi fai issì tottu e m’arraccomandu ca fillu miu Anzilu dèppidi fai su procazu... e de assou! 
Dèppisi benni de immi ònnia marì! T’arringràtziu e bai in bon’ora”.
Frantziscu rispose con voce rassicurante:
Sissa' su meri! … App’a fai comenti chèridi fostei, comenti appu fattu sèmpiri.
Giovanni non volle ricevere più nessuno, mangiava poco e non usciva nemmeno dalla sua stanza. Dormiva e beveva, riceveva volentieri solo Franziscu, al quale ricordava sempre: Anzilu dèppidi fai su procazu!.
Intanto Arturo, sentendosi trascurato dal padre, si armò di coraggio e andò a trovarlo nella sua stanza, da dove non si era più mosso da almeno quindici giorni.
L’incontro fu incoraggiante, il padre lo accolse amorevolmente e gli suggerì subito di andare a Oristano per cercare il locale per il suo studio, aggiungendo che avrebbe pagato qualsiasi prezzo. Arturo rimase qualche attimo in silenzio, poi propose al padre di poter aprire lo studio in paese, in un’ala della loro grande casa; aggiunse poi di voler anche seguire le aziende, naturalmente sotto la guida paterna.
Giovanni non pronunciò più parola, si girò nel letto e, visibilmente sconvolto, congedò il figlio con un cenno di stizza con la mano. Poi, quando la moglie andò a portargli la cena, seduto sul letto e alquanto alterato, l’apostrofò:
Bellu fìllusu tisi, unu péusu de s’atru, ma ista sigura ca no dda binchint’ìssusu! 
O fàinti comenti 'ollu deu o chi 'ogu a tòttusu.”.
Annica, visto l’atteggiamento del marito, non pronunciò una parola; mentre prima intendeva far sapere a Giovanni che la figlia si era innamorata di un loro dipendente, Effigheddu, su tzaracheddu bellu, artu e traballanti.
Decise di rinviare il discorso sulla figlia ad occasione migliore. Ma non ebbe più l’occasione di parlare col marito, perché il giorno dopo venne trovato privo di vita, stroncato da un infarto fulminante durante il sonno.
Dopo il seppellimento, Arturo, la madre e i fratelli si recarono a Riola dal notaio per procedere alla successione del patrimonio.
In seguito, Angelo partì per Cagliari per riprendere gli studi, la sorella sposò Effigheddu e prese con sé la madre, mentre Arturo aprì uno studio in un’ala della casa paterna, dove riceveva i clienti solo per appuntamento, preferendo dedicare la maggior parte del suo tempo a seguire la grande azienda che aveva ereditato.
Qualche anno dopo, nel 1914, scoppiò la prima guerra mondiale, con l’Italia che tentennava fra gli opposti belligeranti. In tutte le città i giovani manifestavano, chi per la guerra e chi per l’astensione. Come risaputo, prevalsero quelli in favore dell’ingresso dell’Italia in guerra a fianco della Francia e dell’Inghilterra, contro l’Austria e la Germania. Nell’anno successivo, infatti, anche l’Italia entrò in guerra.


Angelo intanto aveva conseguito il diploma e, essendo anche lui interventista, si arruolò nell’Esercito. Finito il corso di Ufficiale, egli venne inviato sul fronte.
Arturo faceva progressi, divenne un grosso proprietario terriero, comprando i terreni confinanti con la sua azienda dove costruì una bella e confortevole villetta. Seguiva anche lo studio con la preziosa collaborazione di un bravo impiegato, ma sempre per appuntamento.
Nel 1917, la guerra in trincea e l’utilizzo di una nuova micidiale arma, la mitragliatrice, fecero una numerosa carneficina, in entrambi gli schieramenti.
Arturo, che bramava ingrandire ancora la sua proprietà, fu preso dalla paura di dover dividere i beni di Angelo con la sorella nel malaugurato caso che questi venisse ucciso in guerra. Decise quindi di partire immediatamente per il fronte allo scopo di incontrare Angelo. Qui giunto propose al fratello: 
Nosu deppéusu fai testamentu de patti a patti. 
Chi mórisi tui po primu, su bẽi tuu àndada a mimmi, chi invètzisi mrozu prima deu, is còsasa mìasa pàssanta tóttusu a tia. 
Asi cumprèndiu?
Càstia... chi no fadéusu aitzi deppéusu dividì tottu cũ sorri nosta. 
Si dd’iada a crei crasi cussu miseràbili de Efigheddu!.
Angelo accettò la proposta e subito sottoscrisse l’atto presso un notaio di Vicenza.
La guerra finì l’anno successivo e Angelo non morì, ma rimase in servizio come ufficiale d’artiglieria. Qualche anno dopo, invece, si verificò una grave epidemia, la così detta febbre spagnola, che mandò all’altro mondo tanta gente, compreso il nostro Arturo che tanto aveva desiderato ereditare la proprietà del fratello. 
Tutti i suoi beni, per effetto del testamento reciproco che aveva sottoscritto durante la guerra, furono così ereditati da Angelo.

Racconto di Giuseppe Mocci - Tutti i diritti riservati.


Editing G.Linzas
Revisione dialetto riolese B.Sulas

Nessun commento:

Posta un commento