lunedì 24 ottobre 2011

Storia della Sardegna: Incursione francese su Oristano - Assassinio del Marchese di Laconi e del viceré Camarassa


INCURSIONE FRANCESE SU ORISTANO 

“Nel febbraio del 1637 una squadra navale francese,…,doppiò il capo San Marco ed entrò nel golfo di Oristano bombardando il torrione, unica difesa che vi era stata approntata contro gli assalti barbareschi”. Costituita da 47 vascelli nei quali erano imbarcati all’incirca 4.000 uomini al comando di Enrico di Lorena conte d’Harcourt, la squadra francese era stata inviata dall’Atlantico nel Tirreno con una duplice missione: costringere gli spagnoli a rendere i possedimenti perduti…, le isole di Lerins. Le due isole erano state occupate dagli spagnoli due anni prima, quando la stessa Francia era stata invasa dagli spagnoli”. 


Questo attacco (il cannoneggiamento di Torregrande) venne subito avvertito dalla popolazione di Oristano che, presa dal panico, abbandonò precipitosamente la città. “Molti si riversarono nei villaggi circostanti e nella vicina Santa Giusta. Lo sbarco avvenne di notte e fu effettuato con scialuppe, che, penetrate nella foce, risalirono il fiume Tirso fino all’altezza del ponte (Ponti Mannu), di dove i soldati giunsero lungo la strada maestra a Oristano che trovarono deserta. Con gli abitanti, erano fuggiti anche il Vescovo e le autorità.”. 
I francesi penetrarono a Oristano “con alla testa il d’Harcourt e il vescovo di Bordeaux”, vi rimasero appena tre giorni e proprio nei giorni di Carnevale, quando i cavalieri oristanesi corrono la Sartiglia e la città viene invasa da tanta gente, anche dei paesi vicini. 
I francesi, consci di non poter difendere la città, la lasciarono per reimbarcarsi. Furono però attaccati dalle avanguardie della cavalleria accorsa da Cagliari e dal Logudoro. 
La retroguardia francese venne quasi tutta annientata lungo il corso del fiume, “ma l’imbarco potè avvenire tuttavia senza grosse perdite”. 
Pare che in una imboscata tesa dagli oristanesi, in un boschetto nei pressi del ponte di Nuracabras, oggi scomparso, vennero fatti prigionieri alcuni francesi con gli stendardi. Sono quei “quattro stendardi esposti, ancora oggi, nella cattedrale di Oristano”. 


INTRIGHI BARONALI E ASSASSINIO DEL VICERÉ 

                                                      (tratto dal sito www.manifestosardo.it)

Nella riunione annuale degli Stamenti (Parlamento) del 1665 era stata fatta la proposta “di condizionare il donativo al sovrano all’accettazione delle proposte che gli venivano fatte”, cioè “degli impieghi da riservarsi ai Sardi”. 
Autore della proposta era stato il Marchese di Laconi Agostino di Castelvì e, pare, con il tacito assenso del viceré Camarassa. Quando però il Marchese di Laconi stava per raggiungere il traguardo, dopo una visita in Spagna al sovrano, venne “assassinato, colpito da fucilate e da pugnalate”. Precedentemente il Viceré era stato sollecitato dal Marchese di Villasor e suoi amici a nominare, in luogo del Marchese di Laconi, il Marchese di Villasor Artaldo Alagon, “nemico acerrimo del Castelvì e fedelissimo servitore del re”. 
Gli amici e i partigiani del Marchese di Laconi, con a capo Jacopo Artaldo di Castelvì, cugino dell'estinto, “non ebbero dubbi sul mandante: non poteva essere stato che il viceré, naturalmente con altri dei suoi fidi consiglieri, a prezzolare i sicari. Si formò allora una congiura, che attese solo il momento opportuno per agire. Appena un mese dopo l’assassinio del Marchese di Laconi, veniva ucciso il viceré, colpito dalle archibugiate sparategli mentre rientrava con la famiglia al palazzo reale”. 
Vennero imbastiti numerosi processi, con minacce e torture ai vari testimoni, ma non chiarirono il mistero dell’uccisione del Castelvì. 
“Non vi furono invece esitazioni sui maggiori responsabili della morte del viceré, ormai individuati, che riuscirono a espatriare dopo essersi nascosti un po’ di tempo nel Logudoro”. 
Con la nomina a vicerè del duca di San Germano venne approntato un grande apparato di forze e si effettuarono feroci repressioni, tanto che in Europa si credette ad un tentativo in Sardegna d’insurrezione contro il dominio spagnolo. 
“Sempre col consenso di Madrid, il duca di San Germano continuò gli arresti e l’epurazione… altri, come la maggior parte degli arcivescovi e vescovi, fatti trasferire in Spagna”. 
Il  Viceré cercò in tutti i modi di catturare i responsabili e i mandanti dell’assassinio del Camarassa, che erano stati già condannati a morte. Pur di raggiungere il suo scopo arrivò al punto di arruolare anche i banditi, ai quali promise l’impunità. 
Poiché il ricercato Jacopo Artaldo di Castelvì, marchese di Cea, si trovava ancora in Sardegna e, prima che anche questi riuscisse ad espatriare, il San Germano preparò un forte contingente di soldati, cavalleria compresa, e accerchiò il Monte Nieddu, per catturare lo stesso Castelvì, colà rifugiatosi con una piccola scorta. 
Il San Germano non avendo il coraggio di affrontare i ribelli cercò un accordo con i banditi “offrendo loro l’impunità se avessero consegnato o almeno abbandonato il Marchese di Cea. Offesi nel loro onore, i banditi avevano respinto l’offerta e facilitato l’espatrio del Castelvì.” 
Allora il San Germano reclutò “un tristo personaggio, tale Alivesi che apparteneva a nobile famiglia sassarese ed era stato a lungo bandito”. Alivesi fingendosi amico dei fuoriusciti, li raggiunse con gran numero di amici e di banditi e li convinse a rientrare in Sardegna per continuare assieme la lotta e sollevare le popolazioni contro la tirannia del viceré. 
“Prima ancora che mettessero piede nell’isola agognata”, di notte, vennero sopraffatti e legati. 
I tre che accompagnavano il Castelvì vennero subito decapitati, mentre il Castelvì, prigioniero, fu consegnato al duca di San Germano. 
Il viceré condusse da Sassari, passando per Alghero, “con grande seguito fino a Cagliari, le teste mozze, mentre il Castelvì venne costretto, a piedi, a seguire il tragico corteo fino al luogo ov’era stato ucciso il Marchese Camarassa”. Qui giunto il corteo, il Castelvì fu giustiziato e le quattro teste messe dentro una gabbia “esposte al pubblico nella torre dell’Elefante, perché servisse di ammonimento e fosse perenne il ricordo”. I quattro macabri trofei vi rimasero esposti per ben diciassette anni. 
“Questi avvenimenti non interessarono le popolazioni. Anche perché non ne capirono i motivi, d’altronde a loro estranei.” Infatti la richiesta fatta, a suo tempo, dal Marchese Belvì di assegnare anche ai sardi incarichi pubblici, interessava solo le famiglie nobili, quasi tutti di origine spagnola. 
I sardi, come popolo, ignorarono i forti contrasti e le lotte per aver incarichi ed onorificenze da parte delle classi privilegiate. 
Ristabilito l’ordine, anche in segno di gratitudine, il re “fu prodigo di diplomi di cavalierato e promise pure di voler accogliere i Sardi negli impieghi dell’isola e anche fuori”. 
Naturalmente questo atto di generosità, solo verso “i riccos hombres”, è servita “per far dimenticare gli eccessi del viceré conte di San Germano” e soprattutto per “puntellare le disastrose finanze statali” con le riscossioni dalle numerose nomine, che allo Stato non costavano nulla.

Testo a cura di Giuseppe Mocci 

Nessun commento:

Posta un commento