mercoledì 22 febbraio 2012

"LA COMUNELLA" di Giuseppe Mocci

Forse già dal periodo giudicale e fino al 1949 esisteva a Riola un’antica istituzione che interessava gli agricoltori e gli allevatori, praticamente quasi tutta la popolazione: la Comunella.
Essa “aveva finalità encomiabili perché intendeva regolamentare sia i diritti di pascolo dei pastori e allevatori di bestiame in genere, sia quelli degli agricoltori votati di preferenza alle colture cerealicole”.

Sinis di Riola

La storia
Durante la dominazione romana il Sinis o Sinas era un grande prato “pratum”, costituito da terre “populares” che appartenevano ai vari villaggi o erano di proprietà di qualche soldato romano che ne aveva ricevuto una parte, come premio di fine rapporto, come si dice oggi per chi va in pensione (nel Sinis di Riola è esistita con certezza, in quel periodo, una Villa romana in località “Su Anzu”; oggi, si possono vedere ancora i suoi resti).
Queste terre erano fertili, molto estese e adibite a pascolo e alla semina di cereali: grano, orzo, fave, ecc..
Durante il periodo bizantino e giudicale degli Arborea, dal 500 circa al 1410, queste terre facevano parte del patrimonio dei Giudici e vennero messe a disposizione degli abitanti dei Villaggi e delle Ville (Biddas), in comunione gratuita, per la semina dei cereali e per il pascolo.
Una consuetudine, questa, la quale prevedeva che i terreni, ad anni alterni, venissero coltivati (Vidazzone) e poi lasciati a riposo pascolativo (Paberile). Consuetudine che, durante l’occupazione spagnola, rientrava nei diritti reali pubblici, chiamati “adempriviri”; diritti che furono poi abrogati in epoca sabauda con la legge “sulle chiudende” del 1820.
Durante il periodo bizantino-giudicale, gravitavano nel Sinis gli abitanti di Masones de capras (Cabras), Arriora (Riola) e Narbolia, nonché gli abitanti di diversi piccoli villaggi distrutti dalle numerose incursioni dei Mori. Tra questi vi era anche il villaggio di Fununi, che fu abbandonato intorno al 1350 poiché la popolazione era stata decimata dalla peste. I sopravvissuti si rifugiarono in parte a San Vero e in parte a Riola.
Fununi sorgeva sulle sponde del Rio Mare e Foghe, in zona “Santu Chirigu” (come risulta nell’Archivio Storico curato dal prof. F.C. Casula), in territorio di Arriora. Essa, quindi, doveva essere considerata facente parte di quest’ultima Villa (Riola), cui spettava l’assegnazione della porzione del Sinis di Fununi (fu assegnata, invece, a San Vero).
Al riguardo, si evidenzia che per queste terre fu avviata una causa possessoria, intentata da Riola contro il Comune di San Vero; causa che durò quasi tre secoli (1526/1817), a fasi alterne, ma che alla fine si risolse, stranamente, in favore di San Vero.
Con l’applicazione della legge delle chiudende venne “abrogato il sistema di sfruttamento agrario comunitario e modificato profondamente il paesaggio di una gran parte della Sardegna”.

paesaggio agrario della Sardegna

Questa legge prevedeva che “ogni proprietario poteva recintare e chiudere (tancare) tutte le sue terre con muro, siepe o fossati, purché non fossero soggette a servitù di passaggio, di abbeveraggio o di pascolo (in particolare, le terre soggette a servitù di pascolo sia di passaggio che vagante potevano essere chiuse dal proprietario purché questi avesse ottenuto l’autorizzazione del Prefetto della provincia, dietro parere della comunità del villaggio interessato al detto pascolo)”.
Oltre ai proprietari terrieri, potevano chiudere-tancare le loro terre anche i Comuni, “e, al tempo stesso, venderle, darle in affitto o dividerle in parti uguali tra tutti i capifamiglia del Comune”. “L’applicazione della legge favorì i grandi proprietari, i soli in grado di sostenere le spese per la recinzione dei terreni in questione. I medesimi proprietari “provocarono pure considerevoli danni recingendo boschi di essenze locali, fontane ed abbeveratoi per il bestiame al quale fu precluso l’uso ed il passaggio.” Non solo, ma questi ricchi proprietari “a volte usurparono con audacia scandalosa il terreno confinante e appartenente a povera gente o al Comune; più che altrove, in provincia di Nuoro”. Di queste sopraffazioni “è rimasta una eco nella satira popolare": 

"Tancas serradas a muru
fattas a s’afferra afferra
si su chelu fit in terra
bo che lu serraizis puru”.


Dette sopraffazioni ricordano le lotte antifeudatarie dei sardi del secolo precedente, ben descritte da F.I. Manno nell’inno "de su patriottu sardu a sos feudatarios":

“Procurade ‘ moderare
barones, sa tirannia
chi si no, pro vida mia
torrades a pè in terra!”


Contro le sopraffazioni messe in atto da tanti ricchi proprietari terrieri, in mancanza di intervento governativo, “il popolo irritato, stanco della negligenza governativa, sciolse il problema colle proprie mani, diroccando, incendiando i recinti usurpatori”.
In quel periodo si costituirono, spontaneamente o reclutate da qualcuno, squadre speciali dette “quadriglie”, composte da “ venti o trenta uomini armati” per l’abbattimento delle recinzioni, e non solo nella Provincia di Nuoro.
“Vive pressioni per un deciso intervento vennero esercitate, dopo l’inizio dei disordini, da diversi proprietari di terre chiuse” alle autorità governative. Dopo i numerosi gravi disordini verificatisi nelle province di Nuoro, Ozieri e in altre parti della Sardegna, seguiti spesso da feroci omicidi, il Governo nominò una Commissione militare mista col compito di stroncare con la massima severità i gravi disordini, punire col carcere o con l’esilio gli autori degli abusi e punire i responsabili degli abbattimenti delle recinzioni e i mandanti degli stessi.
Con l’ausilio determinante dei carabinieri la Commissione ne venne a capo, con condanne a morte o con lunghi anni di carcerazione dei responsabili di delitti e dei disordini vari. La medesima Commissione mandò in esilio tante persone sospette, e fra queste molti canonici e parroci. Questi ultimi sarebbero stati i mandanti delle quadriglie, perché danneggiati dalla predetta legge, che li aveva privati del loro patrimonio terriero.

veduta aerea di Riola

A Riola l’antica consuetudine Vidazzone/Paberile fu conservata fino al 1949, col nome di “Comunella”. Essa era costituita da terreni privati e comunali; era amministrata da un consiglio di amministrazione, composto da un Presidente e da tre consiglieri, liberamente eletti; collaboravano un segretario (attuario) e un cassiere.
La Comunella era un’istituzione obbligatoria (imposta anche ai non consenzienti) e per ciò, col passare degli anni, divenne inaccettabile per la maggioranza degli abitanti, che praticava ormai l’agricoltura e non poteva attendere due anni per la semina. Pertanto, sorsero allora contrasti fra pastori, favorevoli alla Comunella (in minoranza), e agricoltori, contrari (la maggioranza).
Nell’anno 1946 un pastore venne assassinato; il suo cadavere fu trovato nella palude “Sa Paui manna”, ricoperto da erbe palustri. Non si scoprì mai l’omicida. Si vociferava che il pastore, soprannominato “Pillõeddu”, fosse stato ucciso perché sarebbe stato un individuo poco o per nulla rispettoso della consuetudine sopra evidenziata. 
Non si trovò accordo alcuno e “la vertenza, sempre più tesa, venne trasferita alla competenza della Magistratura”, nel 1950. “La discussione andò per le lunghe e la causa si trascinava di aggiornamento in aggiornamento”, finché andò in prescrizione.
“Avvenne infine che la Comunella si sciolse senza colpo ferire e ognuno si rimise in possesso dei propri beni.”.

Testo a cura di Giuseppe Mocci - Tutti i diritti riservati
Editing G. Linzas 

Nessun commento:

Posta un commento