giovedì 16 febbraio 2012

"L’AVIERE E IL FERROVIERE" di Giuseppe Mocci


Nel mese di Agosto del 1943, Giuseppe, il nostro eroe, fu chiamato alle armi e assegnato all’Aviazione per frequentare la scuola sottufficiali di Venaria, Torino
Era partito da San Gavino, con una lunga tradotta militare, per Olbia. Qui giunto, fu avviato all’aeroporto militare, dove passo la notte all’addiaccio. Il giorno seguente, s’imbarcò su un aereo diretto a Roma, da dove poi prese il treno per Torino. 
Dopo un lungo e penoso viaggio, il nostro aviere arrivò a destinazione. Qui giunto, la nuova recluta (forse il giorno dopo la vestizione) marcò visita, perché era febbricitante. 
Il medico del reparto, non riuscendo a venire a capo della malattia, dopo aver saputo che era stato punto da una zanzara a Olbia, inviò il nostro aviere all’ospedale di Asti, dove, finalmente, fu riconosciuta la malattia: la malaria. 
Sottoposta a cura mirata, dopo qualche giorno la nostra recluta, guarita, fu dimessa e rimandata al suo reparto. Di ritorno a Torino, il treno fu fatto fermare alla periferia della città, poiché questa era sotto assedio dei tedeschi intenti a rastrellare i soldati italiani sbandati, in seguito al fuggi fuggi generale causato il giorno dopo la firma dell’Armistizio da parte del Governo italiano di Re Vittorio Emanuele III (chiamato beffardamente “Sciaboletta”). Fuggi, fuggi generale dovuto alla mancanza di ordini superiori e al fatto che, come si seppe dopo, anche il re, con la sua famiglia e il Governo Badoglio, era scappato a Sud, dove già erano arrivati gli Alleati. In Italia, pertanto, in quei giorni regnava un caos indescrivibile. 
Il nostro aviere rientrò, quindi, pedibus canlcantibus, nella sua caserma, che trovò invasa da tanti civili torinesi che l’avevano svuotata di tutto. Egli corse subito nella sua camerata, trovandola desolatamente vuota. Con grande disappunto, prese atto che era rimasto privo della sua valigia e dei suoi indumenti. Smarrito e addolorato per tutto quello che era successo, rivolse il pensiero alla sua famiglia che si trovava oltre mare, quindi per lui non aveva senso il “Tutti a casa” dei militari sbandati. Giuseppe, il nostro eroe si sentì perso. Dopo qualche minuto, solo e seduto su un gradino della scala, si alzò di scatto; si era ricordato che la sorella Giovanna abitava a Massa Marittima, in Toscana. Allora egli uscì precipitosamente fuori dalla caserma e, di corsa, si avviò verso la Stazione di Porta Nuova. Madido di sudore e stanco, si fermò in Corso Vittorio Emanuele II, a qualche centinaio di metri dalla stazione. Ripresosi, percorse il lungo porticato, fino in via Re; qui giunto, vide i tedeschi che presidiavano l’ingresso della Stazione, per cui girò a destra, prese poi la prima via parallela a Corso Emanuele e si trovò sul lato destro della Stazione, davanti all’ingresso dell’alloggio dei ferrovieri. Giuseppe, allora, si precipitò, come un falco sulla preda, nella sala “guardaroba”, dove trovò di che vestirsi da ferroviere; aveva, infatti, indossato una vecchia tuta e messo in testa un berrettino un po’ unto. 


Foto d'epoca: stazione ferroviaria di Torino - Porta Nuova

Abbandonata la divisa di aviere e indossata quella di ferroviere, s’incamminò, con in mano uno straccio, lungo un binario, dove c’era un treno in attesa del segnale di partenza. Tutt’intorno c’erano soldati tedeschi che rincorrevano i soldati italiani. Arrivato alla prima carrozza, egli vide il cartello che indicava la destinazione del treno: ROMA; ebbe subito una bellissima sensazione, che gli infuse ancora più coraggio per proseguire nel suo piano; si sentiva già a casa. 
Il nostro improvvisato ferroviere, ansimando, riprese subito la strada lungo il binario e, inchinandosi di tanto in tanto, fingeva di controllare i freni delle carrozze o dava una pulitina alle maniglie con lo straccio. Raggiunta la motrice, con un balzo impetuoso, vi salì sopra e si trovò davanti al macchinista, il quale, convinto che egli fosse il nuovo fuochista che doveva sostituire il titolare assente, lo accolse con piacere. 
A questo punto il macchinista, avendo ricevuto l’autorizzazione alla partenza, attivò una leva e il treno prese l’avvio. Egli, però, non appena l’improvvisato fuochista prese in mano la pala per iniziare il suo lavoro, si accorse subito di trovarsi in compagnia di uno che, forse, non aveva mai visto una pala. Ebbe così la conferma di trovarsi davanti a un militare sbandato e, ricevuta la sua presentazione particolareggiata di essere un aviere in fuga verso Massa Marittima, lo abbracciò; subito dopo gli disse: “Getta, né, il carbon, che più ne metti, né, prima arriviamo a Follonica, stazione di Massa!”. 
I due fraternizzarono con calore. Attraversando le varie stazioni, si ripetevano le scene; sempre le stesse: i tedeschi che rastrellavano i soldati italiani sbandati. 
Finalmente il treno arrivò alla Stazione di Follonica, in Provincia di Grosseto. Come convenuto, e dopo i ringraziamenti da una parte e gli auguri dall’altra, il nostro fuochista scese con un balzo dal treno in lento movimento, a qualche centinaia di metri dalla stazione. 
Il primo obiettivo ormai era stato raggiunto. Felice e contento, egli prese la strada per Massa Marittima e arrivò dalla sorella Giovanna, che lo accolse affettuosamente e con le lacrime agli occhi. Dopo il racconto del suo avventuroso viaggio, il cognato e un amico di famiglia lo rivestirono con abiti civili decenti. 
Grazie ai familiari e agli amici del cognato, Giuseppe s’inserì nell’ambiente cittadino. Trovò anche un lavoro, come supplente del segretario di un Istituto scolastico. 
Intanto la guerra, lentamente, proseguiva; il fronte era ancora lontano. Nel mese di Giugno del 1944, il fronte, ormai, era molto vicino; a Massa Marittima si sentivano già i fragori della guerra. Un giorno il nostro ex aviere, con alcuni amici, salì su una collinetta fuori città, per vedere lo sviluppo dei combattimenti e la direzione delle cannonate. Purtroppo, al rientro in città, il gruppetto di amici fu arrestato da una pattuglia tedesca e rinchiuso in un garage, dove c’erano già altri prigionieri. Da Massa i prigionieri, considerati partigiani, furono spostati in camion presso la miniera di Niccioletta, dove li tennero due giorni, sotto stretta sorveglianza, senza mangiare e in attesa di essere fucilati. 
Il giorno dopo il gruppo dei prigionieri fu trasferito, a piedi, a Castelnuovo, in Val di Cecina, con una marcia di venticinque chilometri. Qui giunti, furono rinchiusi in un vecchio locale, dove dormirono per terra, esausti e morti di fame. Durante la notte, un giovane tedesco di guardia, forse impietosito dalle loro condizioni, diede loro un pane nero in cassetta, che venne diviso in ventisette fette, una per morituro. Dopo qualche ora, i prigionieri, accortisi di essere rimasti incustoditi, scapparono e si trasferirono in un’altra località, dove sopraggiunsero i soldati americani e così poterono, liberamente, rientrare a Massa. 
Ebbe così inizio la pace e il nostro aviere, due volte miracolato, si attrezzò per lasciare la Toscana e raggiungere la sua famiglia in Sardegna. Con un altro sardo, ugualmente ospite a Massa presso parenti, Giuseppe raggiunse, con mezzi di fortuna, la stazione ferroviaria di Follonica. La ferrovia non era più agibile, causa i combattimenti dei giorni precedenti e i conseguenti danneggiamenti subiti. I due presero allora la via Aurelia, direzione Roma; continuarono la strada per qualche chilometro, quando arrivò da dietro una jeep guidata da un negro americano che li prese a bordo e li portò fino a Civitavecchia. Qui la ferrovia aveva ripreso l’attività e i due poterono così arrivare a Roma. Alla stazione Termini, in gran parte distrutta, cartelli con scritte cubitali avvertivano che le partenze per la Sardegna avvenivano dal porto di Napoli e che i militari dovevano farsi riconoscere dal Comando Tapa, presso il porto. 
I due amici proseguirono, quindi, sempre in treno, per Napoli, che trovarono completamente distrutta. Non funzionavano i tram, né i pullman. A piedi, tra le macerie, i due raggiunsero finalmente il Comando Tapa. Qui giunti, dopo il rito del riconoscimento e registrazioni varie da parte dei militari italiani, i nostri amici furono collocati in lista d’attesa per l’imbarco per la Sardegna. Essi rimasero in attesa della partenza alcuni giorni, cosicché poterono vedere l’orrore provocato dalla guerra: distruzione a trecentosessanta gradi, commerci ingannevoli, furti, depravazione collettiva della popolazione femminile che si prostituiva con i soldati americani per fame o per le sigarette; temi poi trattati da Curzio Malaparte nel famoso romanzo “ La pelle”. 


Foto d'epoca: Napoli 
 
Arrivato il loro turno di partenza, i due furono imbarcati su un incrociatore della Marina Militare; dopo otto ore di navigazione rientrarono in Sardegna, ciascuno a casa sua. 
Per il nostro aviere finalmente finirono le lunghe e sofferte peregrinazioni, durante le quali si trovò spesso in pericolosissime situazioni di sopravvivenza. Un vero miracolato.

Testo di Giuseppe Mocci - tutti i diritti riservati. 
Editing G.Linzas

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