venerdì 26 agosto 2011

Contighèddusu Arriorèsusu - a cura di Giuseppe Mocci



FANATISMO RELIGIOSO (Mi dd'ia a crei crasi...)

Negli anni cinquanta del secolo scorso, a Riola fu inaugurato il cinematografo, nei locali attigui al Bar Sport, in via Umberto I
Il giorno dell’inaugurazione venne proiettato un film a carattere religioso, dove appariva spesso Gesù Cristo. Alcuni anziani signori, tutti facenti parte di una Confraternita, andarono a vedere il film, sedendosi in prima fila.
Ogni qualvolta nello schermo appariva Gesù, si sentiva, proveniente dalla prima fila, un’esclamazione di meraviglia e un leggero pianto di gioia. 
Uno della Confraternita, rientrato a casa, ancora con gli occhi rossi, raccontò alla moglie alcuni particolari del film e concluse, piangendo:
Mi dd’ia a crei crasi ca prima de morri bidiu a Zesu Cristu!(1).
 La moglie, allora, prontamente gli rispose:
Za sesi pagu tontu! Tui no asi biu a Zesu Cristu, ma ũ attori de tzìnema(2)
Di rimando il marito concluse:
Deu seu meda cuntentu e creu in Déusu, ma tui no crèisi in Déusu e as a andai a s’Inferru !(3)

NOTE:
1) Non avrei ma immaginato di vedere Gesù Cristo prima di morire;
2) Tu sei veramente fesso! Tu non hai visto Gesù Cristo, ma un attore cinematografico;
3) Io sono molto contento e credo in Dio, ma tu non credi in Dio e andrai all’Inferno.





IL NUOVO POSTINO 

Tanti anni fa, a Riola, prestava servizio una postina, una signora riolese “doc”, la quale conosceva tutti gli indirizzi dei paesani, a memoria; non sbagliava mai. 
Andata in pensione la signora, venne in paese un nuovo postino, proveniente dal Campidano di Cagliari. 
Durante i primi giorni di servizio egli si era recato in via Roma n.9, per consegnare una lettera indirizzata al signor Giovanni Fancello. 
Al rintocco del battente, aprì la porta una donna, alla quale il postino disse: C’è una lettera per il signor Giovanni Fancello, tenga!
Rispose la donna: In custa domu no ch’esti nissũ Fancello e rientrò in casa un po’ scocciata. 
Il postino, al rientro in ufficio, compilò la nota di servizio e annotò: Si restituisce al mittente la lettera indirizzata al sig. Fancello Giovanni perché risulta sconosciuto
L’Ufficiale postale, vista l’annotazione, chiamò il postino e lo informò dell’usanza riolese di chiamare le persone non solo per nome ma, spesso, anche per soprannome; poi lo invitò a consegnare la lettera allo stesso indirizzo ma di dire alla donna che la lettera era indirizzata a Giovanni Fancello, noto Corracutzu
Il postino, ligio al proprio dovere, si recò nuovamente in via Roma n. 9 e alla signora disse: La lettera è per il signor Giovanni Fancello, noto Corracutzu". 
La signora, prendendo in mano la lettera, rispose: Cussu, tiau, esti pobiddu miu! (Quello, diavolo, è mio marito!) e rientrò in casa tutta contenta. 


I DUE FRATELLI 

Negli anni sessanta del secolo scorso, in Sardegna si verificarono molti furti di bestiame (abigeato); quasi sempre gli autori erano i servi pastori barbaricini, che pascolavano le greggi nel Sinis
Questi giovani, quando dovevano raggiungere il loro paese d’origine per godersi le giornate di riposo, usavano rubare uno o più cavalli. Raramente li riportavano, liberandoli nella zona; la maggior parte delle volte, li tenevano per uso proprio o per venderli. 
In quell’anno ai due fratelli Pietro e Paolo, agricoltori, rubarono un bellissimo puledro. Uno dei due fratelli, Pietro, si recò subito con la sua motocicletta in Barbagia, dove, anni prima, aveva prestato servizio da carabiniere; vi rimase un paio di giorni per assumere le informazioni necessarie per il ricupero del cavallo. Avute le informazioni, che lui ritenne veritiere, rientrò in paese. 
Il giorno seguente, dopo molte insistenze, convinse il fratello a partire con lui per riportare il loro cavallo a casa. Il puledro si trovava, secondo le informazioni da lui assunte, nel Supramonte di Orgosolo. 
I due partirono in motocicletta, con un po’ di provviste; arrivarono a Orgosolo un’ora prima del tramonto e Pietro volle fermarsi ad un Bar, per bere qualcosa e per salutare il barista, suo vecchio conoscente. 
Dopo i convenevoli d’uso il barista chiese all’amico: Ita 'osa naki? E ita ses ‘eniu a fàchere? (Come mai da queste parti, cosa sei venuto a fare?). Pietro, ingenuamente, raccontò il motivo della sua venuta. 
I due fratelli ripresero il cammino per la montagna, in una località, dove l’ex carabiniere riteneva si trovasse il suo cavallo e lì si fermarono.
Trascorsero la notte all’addiaccio, sotto un enorme macchione di cisto. All’alba del giorno seguente, Paolo si alzò per primo, uscendo dal macchione un po’ indolenzito; fece qualche passo e si fermò per fumare una sigaretta, ma, non appena mise in bocca la sigaretta, gli arrivò, da dietro, un sonoro schiaffo sulla guancia destra e sentì una voce imperiosa, in dialetto, che gli ordinò: Atte a pipare, naki!” (Dammi da fumare!)
Paolo, atterrito, si trovò di fronte un uomo, un brutto ceffo, armato di mitra, che gli intimò di svegliare il fratello e di andar subito via. 
Pietro dormiva profondamente, tanto che lo sgradito ospite lo prese a calci, gli sequestrò una pistola che teneva sotto la cinta e, con voce determinata e minacciosa, raccomandò loro di non tornare mai più a Orgosolo. 
I due fratelli, tristi e umiliati, rientrarono in paese, con le pive nel sacco. 
L’accaduto è stato raccontato dallo stesso Paolo a vari amici, maledicendo il progetto del fratello e giurando che non si risarebbe, mai più, recato in Barbagia.

Testi a cura di Giuseppe Mocci - Tutti i diritti riservati


Editing G. Linzas
Revisione testi in dialetto B.Sulas

mercoledì 24 agosto 2011

Settembre Riolese: 30° MOTORADUNO D'ECCELLENZA DELLA VERNACCIA




Giunge alla 30a edizione il “Motoraduno della vernaccia”, organizzato dal Moto Kart Club Riola. Un edizione che segna un traguardo importante per lo “storico” Motoclub Riolese. 
Il motoraduno, che si svolgerà dal 9 all’11 settembre, prevede una serie di itinerari turistici di notevole interesse paesaggistico e storico-culturale (dal Sinis, con visita alla città di Tharros, al Barigadu, con visita alle terme romane di Fordongianus, per finire con un breve itinerario attraverso i paesi della vernaccia).
Nelle serate di venerdì e sabato, inoltre, sono previste a Riola diverse iniziative per l'intrattenimento dei partecipanti, compreso un percorso enogastronomico (sabato) che consentirà di degustare prodotti tipici e vini locali. 
Ecco il calendario completo della manifestazione: 

(locandina ufficiale del Motoraduno)

30° MOTORADUNO D'ECCELLENZA DELLA VERNACCIA

Venerdi 09 Settembre 2011

16:00 Apertura iscrizioni presso Giardini Pubblici;
17:00 Chiusura iscrizioni e partenza per un giro turistico;
17:45 Sosta in San Giovanni di Sinis e visita alla città Punico Romana di Tharros;
20:00 Rientro in Riola Sardo dove si svolgerà la cena libera;
22:00 Intrattenimento vario.

GIRO TURISTICO: Riola Sardo, Nurachi, Cabras, San Giovanni di Sinis, San Salvatore, Riola Sardo.


Sabato 10 Settembre 2011

10:30 Apertura iscrizioni presso Giardini Pubblici;
11:30 Chiusura iscrizioni e partenza per un giro turistico;
12:30 Sosta in Fordongianus e visita alle antiche terme romane;
14:00 Rientro in Riola Sardo dove si svolgerà il pranzo, sul luogo delle iscrizioni;
17:00 Pomeriggio libero;
19:30 Ritrovo sul luogo delle iscrizioni;
20:00 Percorso enogastronomico lungo le vie del Centro Storico con assaggi e degustazioni di prodotti della tradizione;
22:00 Intrattenimento Vario

GIRO TURISTICO: Riola Sardo, Baratili San Pietro, Zeddiani, Massama, Siamaggiore, Solarussa, Zerfaliu, Ollastra, Villanova Truschedu, Fordongianus, Paulilatino, Bonarcado, Milis, Narbolia, Riola Sardo.


Domenica 11 Settembre 2011

10:00 Apertura iscrizioni presso Giardini Pubblici
11:30 Chiusura iscrizioni e partenza per un giro turistico;
13:30 Rientro in Riola Sardo dove si svolgerà il pranzo sul luogo delle iscrizioni e a seguito le premiazioni;
16:00 Estrazione della sottoscrizione a premi 2011 e saluto dei partecipanti;

GIRO TURISTICO: Riola Sardo, Narbolia, Milis, Tramatza, San Vero Milis, Zeddiani, Nurachi, Riola Sardo.


pieghevole  (per ingrandire, cliccare sulle foto e usare lo zoom)

(gl)

lunedì 15 agosto 2011

Ricordi di guerra: "I TEDESCHI E GLI ANGLO-AMERICANI" di Giuseppe Mocci

I TEDESCHI 

Nella primavera del 1943, quando la guerra stava travolgendo l’Italia, gli alleati tedeschi arrivarono in nostro soccorso.
Essi giunsero anche a Riola (un reggimento di Fanteria motorizzato) e si accamparono negli oliveti di "Su Barroccu" e dintorni. A loro fu affidato il compito di minare la costa del Sinis fino a Is Arenas, perché si temeva un probabile sbarco anglo-americano.
La popolazione accolse favorevolmente gli alleati, ben armati e dotati di mezzi di trasporto moderni: autocarri, vetture, motociclette e carri cingolati. Erano dotati, inoltre, di un ottimo vettovagliamento; le razioni alimentari erano di ottima qualità e, spesso, venivano loro distribuiti anche dolciumi (caramelle e cioccolati) di marca italiana. Solo il loro pane - nero e impacchettato con carta stagna - non era gradevole.
I Riolesi strinsero subito rapporti di amicizia con questi stranieri, con i quali ci fu un interessante e gradevole scambio continuo di doni. Generalmente, da parte nostra, si offriva pane bianco di semola, vino e frutta, mentre loro ricambiavano con dolciumi, zucchero, sigarette e medicine; cose, queste, scomparse da noi fin dallo scoppio della guerra.
Si crearono dei veri rapporti di amicizia. Al riguardo ricordo l’amicizia stretta da mio padre con un capitano medico, conosciuto al rientro da una battuta di caccia alle pernici nelle colline vicine di Narbolia.
Passavamo in carretta sulla campestre che fiancheggia gli oliveti dove erano accampati i tedeschi, con le numerose pernici esposte, ben visibili come si usava allora, quando ci fermò gentilmente questo capitano, che volle ammirare le nostre prede, perché, disse, era un appassionato cacciatore anche lui. Questi parlava molto bene l’italiano poiché si era laureato in Italia, a Bologna.

Oliveti di "Su Barroccu"

Ho detto che passavamo, si passavamo, perché c’ero anch’io, aiutante cacciatore dodicenne che, durante la caccia, portavo le pernici appese al collo come una collana (detta in riolese “sa cannaca”).
Le frequentazioni col tedesco durarono fino al nove settembre, giorno della sua partenza per la Germania (quando inziò l'evacuazione dell'esercito tedesco), ma in quei mesi la frequentazione reciproca fu intensa.
Dottor Franz - così si chiamava l’amico tedesco - era spesso nostro gradito ospite, a pranzo o a cena. Egli ci portava zucchero, dolci e qualche medicina; gradiva mangiare il pane bianco di semola e bere il vino nero, soprattutto gradiva il piatto forte estivo riolese: le lumache al sugo di pomodoro, "sa sinzella a bànnia".
Il nostro amico non parlava mai della guerra, si capiva che era contrario; parlava spesso della sua famiglia e degli ottimi cibi italiani.
I militari tedeschi, quando erano in libera uscita, la sera, frequentavano l’Osteria di Tzia Maria in via Umberto I (in prossimità dell’attuale Bar Sa Barritta) -  l'unica a Riola -  dove mangiavano grosse cipolle con pane e formaggio stagionato e bevevano tanto vino; quasi sempre rientravano nel loro accampamento un po’ brilli e cantando.

 l'osteria di Tzia Maria era situata in via Umberto I  

Dopo la guerra, nel 1954, il Dr. Franz, l’amico di Ilario, mio padre, tornò in Sardegna da turista.
Venne a Riola con la moglie e chiese a mio padre “un grande favore”, così disse lui, cioè di far conoscere a sua moglie le lumache al sugo di pomodoro. Naturalmente venne accontentato. Egli chiese anche di me, assente, perché allora frequentavo l’Università a Cagliari.
Poiché il Dr. Franz si trattenne in Sardegna qualche settimana per farla conoscere alla moglie, anche io ebbi il piacere di rivedere e salutare con affetto l’amico tedesco, che rientrò in Germania con il portabagagli pieno di formaggio, vino e una buona dose di lumache vive. Ricordo anche che mi chiese, tra le altre cose, se fossi diventato anche io un cacciatore.

Negli oliveti di "Su Barroccu" e dintorni erano accampati anche i nostri soldati. Essi -  appartenenti alla Divisione Bari, di stanza a San Leonardo - erano arrivati il 25 luglio del 1943, proprio il giorno della caduta del Fascismo, perché c’era stato un allarme aeronavale di probabile sbarco degli anglo-americani lungo le coste del Sinis.
Ricordo che provai una grande meraviglia, mista a stupore e dispiacere, nel vedere i nostri soldati, mal vestiti e poco armati, marciare con grossi zaini sulle spalle; non disponevano di automezzi, ma solo di qualche carro tirato da ronzini o da muli. I vettovagliamenti erano alquanto scarsi; scarse erano anche le razioni dei viveri.
I  nostri soldati mangiavano un rancio scadente e quasi sempre a base di riso. Quando erano in libera uscita (il che avveniva di rado) ci chiedevano pane e formaggio, oppure ago e filo per riparare la vecchia e logora divisa. Era una pena, una vergogna, una delusione per chi, come me, aveva creduto nella potenza dell’Italia fascista.
In quella occasione mi venne spontaneo fare confronti con i soldati tedeschi, ben vestiti e armati, dotati di mezzi moderni di trasporto e che, addirittura, mangiavano prodotti italiani.
I nostri soldati provenivano da tutte le regioni italiane; alcuni avevano partecipato alle guerre d’Abissinia, della Spagna, della Grecia, dell’Africa settentrionale; erano, giustamente, stufi di fare i guerrieri. 
Uno di loro, un certo Carmelo, calabrese, l’attendente di un sottotenente, sposò una ragazza riolese; essi vissero a Riola felici e contenti.


GLI ANGLO-AMERICANI 

Partiti i Tedeschi, dopo qualche giorno, arrivarono in Sardegna gli Americani e, subito dopo, gli Inglesi.
Tutti sbarcarono a Cagliari e, d’accordo col Generale Basso, Comandante militare della Sardegna, si stabilirono in varie e distinte località.
Gli americani si stabilirono con la Marina nei porti di Cagliari e Olbia, con l’Aeronautica nei campi di aviazione di Elmas, Monserrato e Gonnosfanadiga.
I porti e gli aeroporti della Sardegna erano stati totalmente distrutti da loro stessi.  Gli americani provvidero subito alla loro riparazione e li utilizzarono:  gli aeroporti per bombardare le città italiane ancora in mano ai tedeschi,  i porti per i rifornimenti ai loro soldati, ai nostri e alla popolazione sarda.
Essi portarono ogni ben di Dio, dai viveri ai medicinali, con nostra grande meraviglia, perché fino al giorno prima erano stati i nostri nemici e stavano vincendo la guerra.
Una compagnia di soldati americani, addetti ai servizi vari, si era accampata nella nostra zona, mi pare a Is Arenas.
In paese non sono mai venuti, almeno io non li ho mai visti. Per quanto mi risulta, non ci fu nessun contatto con la popolazione, senz’altro per una logica diffidenza reciproca. Noi non avevamo ancora dimenticato i loro bombardamenti e mitragliamenti.

Americani in Italia - celebre fotografia di Robert Capa

Nella nostra zona, a Santa Caterina, arrivarono anche gli inglesi; una compagnia di fanteria, di cui non abbiamo mai saputo cosa facessero. Questi, invece, al contrario degli americani, venivano in paese, soprattutto la domenica per assistere alla messa delle undici, e qualcuno allacciò anche rapporti di amicizia con una famiglia.
Ricordo in particolare un ufficiale anziano, persona distinta e fervente cattolico, che faceva la comunione tutte le domeniche. Spesso era ospite del suo amico riolese, accanito fumatore, al quale portava le sigarette, allora completamente sparite dal commercio.
Praticamente, anche gli inglesi si comportarono da amici, con nostra grande meraviglia e sorpresa, perché essi erano stati considerati, per tutti gli anni trenta, come i nemici acerrimi degli italiani.

Testo di Giuseppe Mocci - Tutti i diritti riservati

editing G.Linzas

sabato 13 agosto 2011

GALLERIA DI VIDEO SU RIOLA

Proponiamo, in questo post, una selezione di video pubblicati negli ultimi anni su You Tube riguardanti Riola (video di manifestazioni, concerti, avvenimenti e altro).


GALLERIA VIDEO























Selezione video a cura di Gilberto Linzas



venerdì 12 agosto 2011

Poesie inedite di Efisio Zoncu

Onde Marine

Onde che la mia nave ognor lambite
ed in tenero amplesso la stringete,
voi tutto di mia vita conoscete:
l’ansie, gli affetti, le gioie infinite,
i segreti più cari e le speranze,
e d’amore le dolci rimembranze.

Sorridetemi ancor onde azzurrine,
della mia gioventù fide compagne,
consolatemi il cuor che sempre piagne
onde del mare erranti e peregrine;
sol voi la pace mi potete dare,
all’anima la speme ridonare.

Col vostro mormorìo lento ed arcano
sussurratemi ancor le cose belle;
la leggenda del mare e delle stelle,
del grande, interminabile oceano,
e l’eco riportatemi del cuore
che lontano si strugge nell’amore.

Ricordatemi sempre e dei miei cari,
del remoto mio paese abbandonato
portatemi le nuove, e del passato
della mia fanciullezza, qui sui mari
ritrecciatemi i sogni e le carezze,
i baci rinnovatemi e l’ebbrezze.

Su voi trasvoli e lungi si propaghi
l’angoscia del mio cuor triste ed affranto
e dell’anima mia l’eterno pianto;
i miei sospiri, i miei desir non paghi.
Fate che in ogni terra e in ogni lido
Risuoni ovunque il disperato grido.

E cullatemi ancor con pia dolcezza
al placido chiaror plenilunare,
fate che il pianto , le lacrime amare
il viso non mi velin di tristezza.
Risorgetemi care a nuova aurora
e stringetemi forte, ancora, ancora.

D’ogni bene voi siate apportatrici,
delle cose più sante e più divine,
o delle immense azzurrità marine
solinghe e misteriose abitatrici.
A voi speranze, amor, tutto confido
la vita e l’avvenire ognor v’affido.

Proteggetemi sempre onde azzurrine
onde del mare erranti e peregrine.


Pozzuoli – Maggio 1915




L’idrovolante

Da una forza invisibil animato
l’ampio specchio del mar solca veloce,
e in un volo di veli equilibrato,
- quale dardo terribile e feroce –

nell’azzurro del ciel si lancia ardito
tra le nubi scompare in un baleno,
svela audace i mister dell’infinito
e rombando ritorna nel sereno.

Varca mondi lontani, inesplorati,
pei regni dell’ignoto si protende
senza tregua e confini limitati.

Mille vortici orrendi e spaventosi
nello spazio descrive e ridiscende
all’amplesso dei flutti silenziosi.

Marzo 1914




I Profughi Serbi (1)

Li vidi in un meriggio tenebroso
in terra d’Albania,
sfilare nel sentiero polveroso,
lasciando dietro a lor la bianca scia
di nubi fluttuanti;
li vidi barcollanti
proceder come spettri, e tristi e stanchi,
sparuti e macilenti
con gli occhi senza sguardo ed incavati;
non far gride e lamenti,
reggersi a stento i fianchi
da ferite e dal morbo martoriati;
quell’ombre di soldati
vidi sparire in lunga carovana
orrendamente strana.

Eran biechi fantasmi,
eran nudi carcàmi
e maciullati e ròsi dagli spasimi;
anime derelitte e moribonde
perseguitate dai nemici infami;
esseri imbestialiti ed affamati
visi trasfigurati,
smunti e solcati da rughe profonde;
bocche contratte dal dolore atroce
e quasi senza voce.
Un’orda spaventosa d’esiliati:
giovani combattenti,
eroi di guerra,
ancor d’odio frementi
che bagnaron di sangue la lor terra.

Donne, vecchi e bambini infagottati,
e giovinette spose
pallide e cenciose:
un’irruenta marèa
di popolo in sua tragica odissèa.

E dopo giorni sì penosi e amari
li ritrovai nel porto
di Valòna, scrutando il mar diafano
che invocarono invano
per la salvezza, intere settimane.
Alle navi italiane
la scarna man tendendo,
e pane, e pan chiedendo
ai nostri marinari
accorsi apposta per dar lor conforto.
Molti ai primi soccorsi
soccombettero esangui ed altri il mondo
salutaron con un sospir profondo.
Alle prime dentate, ai primi sorsi
perirono taluni e il grave carco
qualcun del corpo esausto
concesse in olocausto
alla Patria lontan… proprio all’imbarco.

Ovunque lor passarono le orme
lasciarono dell’esodo
con roghi di cadaveri stecchiti
sparsi qua e là per gli erti
sentieri aspri e deserti.
Fedelmente seguiti
dai lor ronzini (nel martirio uniti)
e da branchi di cani ringhianti;
da fameliche torme
di corvi gracchianti
pei valichi assaliti
fino all’estremo approdo.

E i nostri marinari generosi
- per tanto onore quasi giubilanti –
d’amor fraterno e da pietà sospinti
accolser della Serbia i doloranti
profughi figli, indomiti, non vinti,
tenaci e valorosi.
L’Italico sorriso e il sole ardente
risorse a nuova vita e a nuova gloria
il popolo oggi ancor vivo e possente
immortalato da sublime istoria.

R.N. Andrea Doria - 1916


NOTE: 


(1)  La poesia “Profughi Serbi” racconta, in versi, un episodio poco noto della prima Guerra Mondiale: il salvataggio dell’esercito serbo da parte della Marina Italiana (di cui Efisio Zoncu faceva parte). 
In sostanza, si trattava di salvare i profughi e l’esercito serbo ripiegati verso la costa albanese.
All’epoca sulla costa non c’erano porti, solo rade naturali, e i fondali bassi impedivano l’utilizzo di grossi piroscafi. Si provvide fin dalla fine del 1915 a soccorre i serbi con trasporto di viveri con naviglio leggero. 
Le carovane di trasporto a terra venivano però attaccate da bande armate austriache, per cui fu necessario inviare un corpo d’occupazione italiano oltremare. Fu costituita una base navale a Valona. A Durazzo si costituì una base provvisoria, attraverso cui vennero trasportati l’esercito serbo, i profughi, e anche i prigionieri austriaci.  Si agì in collaborazione con Inghilterra e Francia.
Dal 12 dicembre 1915 al 22 febbraio 1916 furono trasportati dalla costa albanese a Corfù 130.841 uomini di fanteria;  4.100 a Biserta; più 11.651 profughi e malati. 
Furono compiuti 87 viaggi da San Giovanni di Medua a Durazzo e Valona, con una flotta di 6 grandi piroscafi passeggeri italiani e 2 incrociatori francesi, 6 grandi navi ospedale, di cui 3 italiane; 2 piccole navi ospedale italiane; 34 piroscafi medi e piccoli, di cui 15 italiani.
Dal 16 dicembre 1915 al 12 febbraio 1916 da Valona all’Asinara vennero portati 22.928 prigionieri austriaci, con 15 viaggi di 13 piroscafi (11 italiani). 
I piroscafi Re Vittorio e Cordova ebbero 300 morti ciascuno per epidemia di colera (l’epidemia continuò poi drammaticamente sull’isola dell’Asinara: su 25.000 POW - prigionieri di guerra - concentrati lì in “osservazione sanitaria” ne morirono 6000).
Dal 1 marzo 1916 al 5 aprile 1916 fu trasportata da Valona a Corfù la cavalleria serba: 13.068 uomini e 10.133 cavalli, in 17 viaggi di 6 grandi piroscafi di cui 3 italiani.
L’Austria, contando sulla vicina base di Cattaro, esercitava sorveglianza aerea e tentò spesso l’azione con squadriglie di cacciatorpediniere appoggiate da esploratori e incrociatori, abbandonò mine alla corrente, portò 13 attacchi di sommergibili. 
Oltre che porre in salvo l'esercito inseguito, per tre vie, dal nemico, le navi italiane hanno trasportato in Italia anche tutte le migliaia di prigionieri austriaci fatti dai serbi. 
( notizie storiche tratte dal sito www.betasom.it)



Si ringrazia Giuseppe Mocci per la preziosa collaborazione.
Tutti i diritti riservati

mercoledì 10 agosto 2011

Ricordi di guerra: “IL CAPORAL MAGGIORE SOLINAS” di Giuseppe Mocci

Alla fine del 1942, a Riola, furono costruite opere di difesa militare: due fortini in cemento armato e una piazzuola per un cannone contro-carro a Nord-Ovest del paese, di fronte al ponte e in sua difesa.
Venne anche distaccato un plotone di fanti, accasermati nei locali del piano terra del vecchio Municipio, col compito di presidiare le predette opere.
Li comandava un Sergente, proveniente da un paese vicino, coadiuvato da un caposquadra anziano, il Caporal Maggiore Solinas, originario del Sassarese. La truppa era tutta sarda, composta anch'essa da elementi non più giovani.
Questo plotone faceva parte della Compagnia comandata dal Capitano Rag. Paolo Mannu, riolese, di stanza a Oristano. La Compagnia, a sua volta, era inquadrata nel Battaglione Territoriale (di stanza ugualmente ad Oristano) e doveva sorvegliare la costa, da Arborea a Is Arenas.

Il Rag. Paolo Mannu - capitano dell'esercito durante la 2a guerra mondiale 

Il plotone di Riola fu accolto dalla popolazione con amicizia; spesso qualcuno di loro veniva anche invitato a pranzo. La sera i militari, liberi dai servizi, erano sempre ospiti di qualcuno, in cantina a bere la Vernaccia.
Il Sergente, invece, partiva tutte le sere a casa sua, un paese distante da Riola una decina di chilometri, mentre era sempre presente il Caporal Maggiore Solinas, che in poco tempo s’integrò amabilmente con i riolesi.
Famose le sue sbronze ed i suoi farneticanti discorsi. Egli soleva dire, tra le altre cose insensate:
Ynnoghe sos americanos no ana a passare, poite su Caporale Mazore Solinas los ada a frimare cun su canone sou" (qui gli americani non passeranno, perché il Caporal Maggiore Solinas li fermerà col suo cannone). Dopo, naturalmente, crollava a terra e qualche buon amico lo doveva accompagnare in Caserma.
Il nostro eroe era anche riconoscente e disponibile; durante la vendemmia aiutò generosamente un suo amico (allora la manodopera era inesistente, essendo la maggior parte della forza lavoro richiamata alle armi).
Il Capitano Mannu passava a Riola con un’autovettura diretto nelle campagne del Sinis, dove ispezionava gli altri suoi reparti.
Il plotone di Riola lo ispezionava al rientro, per cui il Sergente e il Caporal Maggiore Solinas, a conoscenza del transito del loro Capitano, si facevano trovare sempre in ordine in caserma.
Queste ispezioni, tuttavia,  erano molto rare per la nota mancanza di carburante.

Riola - Vecchio Municipio 

Oltre alla mancanza di carburante, il nostro Esercito mancava anche di automezzi; infatti, quando scoppiò la guerra furono requisite tutte le motociclette, gli autocarri e le gomme delle autovetture.
Ricordo, al riguardo, che a mio padre furono requisite le gomme dell’autovettura e la motocicletta. A me era dispiaciuta la mancanza della moto, perché mi mancava uno strumento dei miei giuochi; ma dopo il sequestro delle gomme mi divertivo con l’autovettura, che era stata sistemata sopra dei cavalletti di legno. Io e l’amico Salvatore eravamo diventati "piloti" di macchine da corsa.
Il nostro Caporale Maggiore, una volta, si distinse con onore nell’esercizio dei suoi doveri. Fu quando il 25 Luglio del 1943, nel mezzo della notte scoppiò un fragoroso e lungo temporale, che tutti, ricordo, scambiarono per l’inizio dello sbarco anglo-americano nelle spiagge del Sinis, da dove sembrava provenissero le presunte cannonate.
Il Capo squadra Solinas, anch’egli convinto dello sbarco in atto, andò di corsa, in bicicletta, a chiamare il Sergente. Questi, assunto il comando, dispose subito gli uomini nei vari fortini, ma appena indossati gli elmetti cessò il temporale. Com’era naturale, seguì una sonora e beffarda risata da parte di tutti.
Mentre non fece onore ai nostri fanti il comportamento tenuto il giorno dopo l’Armistizio, il nove settembre.
Era successo che il giorno prima tutti, indistintamente, avevano festeggiato l’Armistizio, cosa questa che voleva significare la fine della guerra e di tante privazioni e sofferenze. I soldati, in parte ubriachi nelle cantine, altri rientrati nelle rispettive case, abbandonarono i fortini e il cannone.

 Riola  - piazzuola dov'era posizionato il cannone contro-carro 
Riola - fortino in cemento armato della seconda guerra mondiale

Di pomeriggio transitarono, pacificamente, i tedeschi, che dovevano imbarcarsi a Porto Torres per il Continente. La retroguardia della colonna, una decina di soldati, oltrepassato il ponte, si fermò davanti al cannone della nostra postazione; poi andarono a controllare i fortini e, vedendo che i nostri soldati erano spariti tutti, s’impadronirono del cannone e lo resero inservibile.
Gli stessi soldati, tornati sul ponte, lo fecero saltare in aria con una carica di dinamite. Vedo ancora gli enormi blocchi di pietra volare e ricadere lungo il fiume e sulla strada.
La stessa operazione, i tedeschi in ritirata da Cagliari, la tentarono nel ponte sul Tirso a Oristano (Ponti Mannu); ma non riuscì, perché i fanti del Capitano Mannu, che presidiavano il ponte, si opposero con determinazione. Ci fu anche una piccola schermaglia, prima a voce e poi anche con le armi; prevalsero comunque i nostri.
I soldati di Riola sparirono, come tanti in tutta l’Italia, perché dopo l’Armistizio il Re "Sciaboletta" (incapace e ritenuto traditore dall’alleato tedesco) pensò solo a scappare al Sud, occupato dagli anglo-americani, per salvare la sua pelle, lasciando le  forze armate italiane allo sbando.

Testo di Giuseppe Mocci - Tutti i diritti riservati.

editing G.Linzas - revisioni dialetto B. Sulas

lunedì 8 agosto 2011

STORIA MEDIOEVALE DELLA SARDEGNA (sintesi - 13ª parte)

L’ORGANIZZAZIONE GIUDICALE 

Il GIUDICATO
“I Giudicati sorsero spontaneamente e direttamente dalle città-stato superstiti le cui funzioni furono le stesse che ritroveremo nell'ordinamento giudicale (R. Carta Raspi).
Le città-stato conosciute, nel VII/VIII secolo, erano : Calaris-es; Tharros; Torres; Civita (Olbia-Gallura). Queste città-stato divennero poi Giudicati, con un più esteso territorio.
“E così , il “locu”, che prima era il retroterra della città, diventa tutto il territorio del Giudicato; e “Parte” significa tutto il Giudicato (Parte d'Arborea).- R.C. Raspi -

antica città di Tharros

IL GIUDICE
Colui che amministrava, sotto tutti gli aspetti, civili e militari, il Giudicato. “Le sue funzioni erano in gran parte delegate ai funzionari e ai minori ufficiali dello stato”.
Per il Prof. F.C. Casula il Giudice era un RE e il Giudicato un Regno.
Alle origini si chiamava anche Sufeto (in lingua Fenicia), Arconte (in lingua greca); pare che allora ci fossero “due Giudici, uno chiamato “Giudice e Re”, l'altro, Giudice in sottordine, era chiamato “de fattu”… Nella iscrizione di Villasor… erano due: Torchitorio e Salusio, nobilissimi Arconti…
In CSPS. 38 (Condaghe S. Pietro di Silki) troviamo: “testes ambos judikes, judike Barusone e judike Mariane” (R.C.Raspi).
La carica, in origine, era elettiva durava da uno a più anni, poi, essendo diventati i Giudicati dei Principati, divenne ereditaria.


antica ripartizione territoriale della Sardegna

LE CURATORIE
Il Giudicato era diviso in CURATORIE, che erano una unione di più comunità, (biddas, ville). La Curatoria veniva amministrata da un Curatore, nominato dal Giudice e apparteneva al ceto dei majorales, chiamati anche “Primates, nobiles, donnos”. 


LE VILLE-BIDDAS
La Comunità (Bidda, Villa) era formata dalle famiglie, dette “Fuochi”. La classe dominante era il clero, a seguire i nobili e i liberi. Solo queste tre categorie, che pagavano i tributi, potevano partecipare alla organizzazione civile-amministrativa della Villa. I liberi erano, in maggior parte, gli artigiani e i mercanti, che erano tenuti anche al servizio militare a cavallo. Nelle Ville abitavano molti servi e schiavi non cristiani, che non venivano nemmeno censiti. 
La Villa o Bidda veniva amministrata da un Majorale, nominato dal Giudice, che riscuoteva anche i tributi.


CORONA DE LOGU
Nel Giudicato esisteva una specie di Parlamentino: la Corona de Logu. Essa era composta da tutti i rappresentanti delle Ville, che venivano eletti o nominati nelle parrocchie, essendo il clero la classe dominante.
Ad Oristano, sede della Corona, dopo l’abbandono di Tharros, “i rappresentanti delle Ville si riunivano nella chiesa di Santa Maria (oggi Cattedrale) o in quella di San Francesco” (R.C.Raspi).
La Corona si interessava degli affari più importanti: la giustizia, l’ordine pubblico, le alleanze, i patti internazionali e le guerre, sia quelle contro i mori che contro un altro Giudicato.


CORONA DE CURATORIA
Nella Curatoria c’era una specie di piccolo Consiglio provinciale, detto Corona de Curatoria, che provvedeva all’ordinaria amministrazione e curava i rapporti con le Ville.


CORONA DE VILLA
Esisteva anche una specie di Consiglio comunale, la Corona de Villa o de Scolca, retta da un Majorale e che si interessava dell’uso della terra-pascolo o coltivazione, legnatico, prestazioni d’opera per alcuni servizi-manutenzione delle strade campestri (le famose comandate, giunte fino agli anni sessanta del secolo scorso).


CARTA DE LOGU
La Carta de Logu è una raccolta di leggi, uno Statuto; per il Prof. F.C. Casula sarebbe uno dei più antichi codici di leggi europee.
La Carta era scritta in sardo e la prima raccolta delle leggi è stata fatta da Mariano IV d’Arborea, perfezionata e promulgata da sua figlia Eleonora nel 1392, “per preservare la giustizia del popolo della nostra terra e del Regno d’Arborea”.
Anche negli altri Giudicati erano in uso Cartas de Logu, codici differenziati fra loro, dei quali non è rimasta traccia, ad eccezione di una parte dalla Carta de Logu di Callari.
Prima della raccolta di Mariano IV, le leggi in vigore erano quelle pervenute dai romani e dai bizantini; leggi tramandate oralmente, che col passare del tempo e con l’evoluzione delle istituzioni vennero adeguate alle esigenze dei vari territori Giudicali.

antico frammento della Carta de Logu


LA CARTA DE LOGU DI ARBOREA
La più famosa Carta è quella promulgata da Eleonora d'Arborea: un manoscritto in sardo sopravvissuto sino ad oggi e che si trova nella Biblioteca universitaria di Cagliari. 
Di Carta de Logu ne esiste un’altra, apparsa misteriosamente a Cagliari da autori ignoti, intorno alla prima metà dell’Ottocento, risultata poi falsa. Essa fu pubblicata dallo storico e letterato Salvatore Angelo De Castro dal titolo: “I nuovi codici di Arborea”, con una biografia del tutto fantasiosa della Giudicessa Eleonora. Il De Castro la pubblicò, pare, in buona fede, ma fu sospettato di essere l’autore.
Queste carte ingannarono molti studiosi e fecero di Eleonora una novella Giovanna D’Arco, sempre in armi in prima fila contro i nemici aragonesi.
Nelle medesime carte, Eleonora viene descritta come una bellissima donna, invece ella era una donna normale, più bruta che bella; il prof. F.C. Casula l’ha riconosciuta in una scultura della chiesa di San Gavino ed essa appare col viso sfigurato, forse venne colpita dalla peste, molto frequente nel periodo in cui visse.
Questa falsa Carta inventò poi tanti personaggi mai esistiti, ai quali i Comuni della Sardegna intitolarono, allora, vie e piazze; a Oristano le vie Serneste, Torbeno Falliti, Aristana (questa sarebbe stata la prima Giudicessa di Aristanis), ecc.
Nel mese di Dicembre del 2010, la Carta De Logu di Eleonora è apparsa a Oristano, tradotta in italiano dal professore di Glottologia e Linguistica Giovanni Lupinu della Università di Sassari.


LA BANDIERA DEI QUATTRO MORI
La Bandiera della Sardegna oggi è quella che reca i quattro mori, rivolti a destra e con la benda sugli occhi (indice di vittimismo). Così è stata concepita dalla Regione Autonoma della Sardegna nel 1949, data della sua istituzione costituzionale.
Purtroppo oggi si vedono anche bandiere con i mori rivolti a sinistra, segno di ignoranza da parte di chi le fabbrica o  le stampa.
La sua storia è stata scritta recentemente (2007) dal prof. Franciscu Sedda, docente dell’Università di Sassari e di Roma.
La bandiera con i quattro mori era la bandiera di guerra del Re d’Aragona già dal 1281 ed i mori erano senza benda e “dai tratti africanizzanti”, senz’altro a significare sia “la riconquista iberica dai Mori” dei quattro regni di Aragona, Catalogna, Valenza e Maiorca, sia la loro unificazione nel Regno di Aragona.

antico stemma del regno di Aragona - bolla plumbea

Questa bandiera era rimasta poi come la bandiera di guerra dei Re d’Aragona.
Nel 1409, subito dopo la battaglia di Sanluri, fu proprio il Re Martino d’Aragona a farci sapere come erano allora le bandiere dei sardi e del nuovo Regno unificato di Aragona. Infatti egli scrisse agli altri sovrani d’Europa per informarli dello “sterminio dell’esercito dalla nazione sarda” e che durante la battaglia i soldati spagnoli erano riusciti a impadronirsi della “bandiera dels sards”.
La bandiera della Sardegna, allora, era costituita da un Albero diradicato verde in campo bianco, ereditata dal Giudicato di Arborea (oggi lo stemma della provincia di Oristano).
Mentre la bandiera degli spagnoli era costituita dalle "barras" catalane, i pali rossi e gialli, ereditata dai catalani.
L’uso della bandiera con i quattro mori da parte dei sardi risale al 1590, così come risulta dallo “Stamento militare di Sardegna, durante la dominazione spagnola”. Però i mori erano rivolti a sinistra e con la benda sulla fronte.
Nel periodo sabaudo (Savoia) si trovano due tipi di bandiera; una con i quattro mori con benda sulla fronte e un’altra con benda sugli occhi, in entrambe i mori sono rivolti a sinistra.

Testo a cura di Giuseppe Mocci - Tutti i diritti riservati

venerdì 5 agosto 2011

Ricordi di guerra: “IS AMERICÃUSU” di Giuseppe Mocci


RICORDI DI GUERRA (1940/45)

Il 10 Giugno del 1943, l'Italia fascista di Benito Mussolini e di Vittorio Emanuele III di Savoia, Re d'Italia e d'Albania e Imperatore d'Etiopia (soprannominato "Sciaboletta", per la sua bassa statura), dichiarò guerra all'Inghilterra e alla Francia, alleandosi con il Giappone e la Germania del criminale Dittatore Adolf Hitler, che aveva già iniziato le ostilità in Europa con l'invasione barbarica della Polonia, nel 1939.
Nonostante il parere contrario dello Stato Maggiore della Guerra, motivato dalla ben nota situazione di arretratezza delle nostre forze armate e dall’insufficiente industria bellica, il nostro Dittatore (Dux/Duce) fece firmare a Vittorio Emanuele III la dichiarazione di guerra alle due potenti nazioni democratiche: l'Inghilterra e la Francia, quest'ultima molto amica dell'Italia (i francesi sono stati sempre considerati nostri "cugini").
Sciaboletta, notoriamente incapace, succube di Mussolini, tronfio per l’effimero successo raggiunto dall'Italia fascista con la ridicola annessione dell'Albania e per la barbara invasione dell'Etiopia, forse anche con la speranza di ingrandire il suo dominio, non ebbe nemmeno un attimo di riflessione quando il nostro Dittatore gli presentò la dichiarazione di guerra.

Il Duce Benito Mussolini e Vittorio Emanuele III 

Vinceremo! era per l’Italia fascista la parola d'ordine. Anche in paese, a Riola, su molte facciate delle abitazioni, e soprattutto in quelle degli edifici pubblici, venne scritto a caratteri cubitali il motto: VINCEREMO.
Anch'io, come quasi tutti gli italiani, mi ero illuso sulla vittoria certa, garantita dal Duce e dai gerarchi suoi collaboratori. A niente mi erano servite le osservazioni e i discorsi che mi faceva spesso il signor Enrico Suella, mio vicino di casa.
Ricordo perfettamente che, quando veniva dai miei e mi vedeva intento a studiare, mi aiutava a fare i compiti oppure mi parlava della Storia del Risorgimento, soprattutto di Garibaldi e di Mazzini. Il suo discorso finiva sempre col denigrare Mussolini, affermando che l’Italia avrebbe perso la guerra. 
Io non capivo il pessimismo di quest’uomo e perché non adorasse il Duce, come tutti gli altri italiani; forse perché, allora, non conoscevo la sua storia.

Enrico Suella

Dal primo giorno di Guerra, il Partito aveva invitato la popolazione ad ascoltare il Comunicato di Guerra, diffuso a mezzo radio, presso la sede, chiamata Casa del Fascio.
Ricordo un episodio curioso capitato durante la diffusione del comunicato, la sera della dichiarazione di guerra dell’Italia agli Stati Uniti d'America, nel 1941. Successe che, alla fine della trasmissione, mentre molti applaudivano e gridavano “Vinceremo!”, un vecchietto, un certo signor Murtas, curvo e appoggiato a un bastone, esclamò:
Boh! Boh! ... Sa gherra e' pédria! (Boh! Boh! ... La guerra è persa!).
A chi gli chiedeva spiegazioni sul suo pessimismo, rispose:
Eh…! S’América esti s’América, ‘osàtrusu non sidéisi nudda de sa potèntzia de custa natziõi. Sa gherra de s’Europa d’éusu binta po is cannõisi e po i viverisi de is Americãusu” (L'America è America, voi non sapete niente della potenza di questa nazione; la guerra europea l'abbiamo vinta grazie ai cannoni e ai viveri degli americani) e se ne andò via. Da quel giorno, il vecchietto non andò mai più ad ascoltare il comunicato di Guerra.
Fino al 1941 la guerra andava benino, dopo incominciarono le sconfitte, una dopo l’altra. Avevamo già perso le Colonie: Somalia, Eritrea e Abissinia. 
Nel 1942 incominciarono i disastri: altre sconfitte, bombardamenti delle nostre città (Cagliari compresa); strade, ferrovie, porti e aeroporti distrutti; mancanza di viveri e di medicinali. Grave sconfitta anche in Africa Settentrionale, con la perdita della Libia e l’inizio dell’invasione Anglo-americana dell’Italia.
Già nella primavera del 1943 si stava avverando quanto previsto dai signori Suella e Murtas; la guerra stava andando male, molto male per noi italiani, soprattutto dopo l'entrata in guerra degli americani.
Ricordo, e a occhi chiusi rivedo, la scena durante il bombardamento americano del campo di aviazione di Milis: dalla direzione del Sinis, all’ora di pranzo, arrivarono centinaia di aeroplani che facevano un rumore assordante. Tanta gente, ancora fiduciosa nella vittoria, si riversò sulle strade e sulle piazze ad ammirare lo spettacolo, convinta che fossero aerei tedeschi nostri alleati.

aereo americano abbattuto nei pressi di Milis

Non appena gli aerei oltrepassarono la verticale di Riola, la contraerea, a difesa del campo di aviazione, cominciò il tiro al bersaglio, ma questa sparò troppo basso, perché la formazione aerea americana da bombardamento era scortata da centinaia di caccia che volavano rasentando i tetti.
Due fabbricati del paese furono colpiti dal fuoco amico: l'edificio del Montegranatico e una casa di abitazione nell’attuale via Manzoni. Per fortuna non ci furono vittime, ma grandissimo spavento.
Ma non finì lì, perché subito dopo arrivò un’altra ondata di bombardieri a completare l’opera di distruzione e morte nel campo e nel Comune di Milis.
Io e alcuni miei coetanei, non curanti del pericolo di rimanere colpiti dalle numerose schegge delle granate che cadevano dal cielo, andammo di corsa al ponte, da dove vedemmo il bombardamento del campo di aviazione di Milis, che venne completamente distrutto e reso inservibile per sempre.
 Non solo, ma assistemmo anche alla battaglia aerea dei caccia, terminata con la distruzione dei nostri pochi velivoli, che si erano levati in volo per difendere il campo.
I caccia americani erano invece centinaia; di questi uno solo fu abbattuto e cadde presso Is Arenas, dove in molti andammo di corsa a vedere i resti. Il pilota, un negro americano, si salvò col paracadute e fu fatto prigioniero dai tedeschi, che erano accampati in un oliveto vicino.
Da quel giorno le “fortezze volanti” degli alleati non tornarono a bombardare, ma per qualche mese imperversarono continuamente i loro "caccia a due code”, così li chiamavamo noi, per mitragliare tutto ciò che era in movimento. 

A Riola furono “vittime” dei mitragliamenti diverse persone, fra le quali anche mia madre e il padre del mio carissimo amico Salvatore Bellu.
Mia madre rientrava da Oristano in carretta (l’unico mezzo allora in uso) e quando questa fu nei pressi di Nurachi apparve un “caccia a due code” che subito esplose una lunga raffica di mitraglia, ma non centrò il bersaglio, anche perché il carrettiere, appena visto l’aereo, fece andare il mezzo in una profonda cunetta, procurando a entrambi piccole escoriazioni.
Al padre di Salvatore, Giovanni Bellu, noto e apprezzato fabbro, l’incontro con il famoso “caccia a due code” avvenne mentre percorreva una strada campestre in bicicletta. Questo aereo gli scaricò una raffica di mitraglia, ma non lo colpì, poiché anch’egli si era buttato in cunetta tra i rovi.
Dopo un minuto, raccontò signor Giovanni, l’aereo si ripresentò, mitragliando la strada; egli rimase ben nascosto, almeno una mezz’ora, fino a quando non sentì più rumore di aerei. Rientrato a casa, sano e salvo ma terrorizzato, il nostro fabbro si trovò con i pantaloni bruciacchiati da una pallottola americana.
In quella zona i caccia imperversavano, perché forse sapevano della presenza dei soldati della Divisione Bari e del Reggimento tedesco, accampati negli oliveti di Su Barroccu e dintorni.
Per nostra fortuna la guerra in Sardegna finì l’otto settembre del 1943 con l’Armistizio, e finirono anche le incursioni aeree. Accadde però che, proprio in quel giorno (o il giorno dopo), un bombardiere americano gravemente danneggiato fu costretto a un atterraggio di fortuna nello stagno di "Sale 'e Porcus".
Anche in quell’occasione andammo in molti a vedere la cosiddetta “fortezza volante”, con l’intenzione, eventualmente, di aggredire  gli americani.
Trovammo solo l’aereo, era enorme e ancora armato con tre mitragliatrici e un cannoncino; gli americani erano spariti. Sapemmo dopo che li avevano ospitati dei pastori di San Vero Milis, ai quali avevano offerto sigarette, dolci e i paracadute di seta. Informati dell’assenza in loco di soldati tedeschi, gli americani si fecero accompagnare dai carabinieri di San Vero.

formazione di aerei americani 

Per qualche settimana la “fortezza volante” divenne oggetto dei nostri giochi, poi fu distrutta dagli stessi americani, che nel frattempo erano sbarcati in Sardegna.
L’otto Settembre 1943 è stato, per alcuni - anche per me, Balilla illuso - un giorno molto triste (ricordo, infatti, di aver pianto), per altri invece un giorno di grande euforia; ricordo che alcuni, particolarmente euforici, abbatterono le sculture del Fascio che si trovavano sulle facciate del Municipio e delle Scuole. Molti, che si trovavano nello stesso mio stato d’animo, si spaventarono tanto e presagivano seri guai dai vincitori.
Ricordo mio nonno che soleva ripetere:
Cessu… itta s’ant a fai is americãusu?” (Chissà cosa ci faranno gli americani?).
Strano ma vero, gli alleati Anglo-americani arrivarono invece da amici e come tali si comportarono; infatti portarono in Sardegna viveri, medicinali e ogni ben di Dio.

Testo di Giuseppe Mocci


editing: G.Linzas - revisione dialetto Riolese: B. Sulas


mercoledì 3 agosto 2011

STORIA MEDIOEVALE DELLA SARDEGNA (sintesi - 12ª parte)

IL GIUDICATO DI CAGLIARI/CALARI/PLUMINI 
a cura di Giuseppe Mocci

stemma del Giudicato di Cagliari (incerto)

Il Giudicato di Cagliari o Calari, sorse dove una volta c’era il castrum militare della scomparsa Caralis o Carales (Rione Marina, Santa Eulalia).
Non si conoscono i nomi dei Giudici che seguirono a quelli di nomina bizantina. Pare che il primo Re-Giudice sia stato Gialeto (711 ?), con residenza a Caralis. Alla sua morte, o di qualche suo figlio o parente, si sarebbe insediato nel Giudicato Teoto (740 ?) [Angius] oppure Torchitoro [Carta Raspi] o Mariano-Salusio I (900 ?) [F.C. Casula].
La città romana fu occupata e distrutta dagli arabi intorno al 934 [Ibin Al Athir, storico musulmano]; la città, o quello che rimaneva, fu abbandonata e i superstiti si sarebbero rifugiati nei pressi dello stagno di Santa Gilla, dove avrebbero costruito la città di Igìa.
A Mariano/Salusio I sarebbe succeduto Costantino/Salusio II (934 ?), forse il primo Giudice di Igìa.
Da questo momento il Giudicato assunse il nome di Plumini. “Non si conosce il suo stemma araldico” (lo stemma con il cavallo è incerto).

Castello di S. Michele Cagliari - aveva funzione difensiva di S. Igia, capitale del Giudicato

Come gli altri tre regni giudicali, era anch'esso uno Stato sovrano e perfetto.
Il suo territorio era per metà montuoso, con parte del massiccio del Gennargentu, le alture del Sulcis-Iglesiente e del Sarrabus, e per metà pianeggiante, con il Campidano e la valle del Cixerri nel meridione dell'Isola.  Era limitrofo in massima parte col Regno d'Arborea, ma toccava anche il Regno di Torres, a sud di Orgosolo, ed il Regno di Gallura, all'altezza della grotta del Bue Marino presso Dorgali.
Si calcola che vi abitassero quasi centomila persone, di cui un terzo liberi; i restanti due terzi, o poco più, erano costituiti da servi e da schiavi esotici. 
Il Regno, con tradizioni bizantine, durò circa 358 anni, dal 900 al 1258, ed ebbe almeno dieci generazioni di sovrani noti appartenenti a sei casate: Lacon-Gunale; Lacon-Gunale di Torres; Lacon-Massa; Massa
“Questi casati si trovavano anche negli altri giudicati ed erano, naturalmente, parenti. Parentela che spesso, anche per ragioni di successione, li metteva in conflitto, con odiose guerre fratricide, che contribuirono non poco alla fine degli stessi Giudicati.  Famosa, al riguardo, la guerra mossa dai Giudici di Plumini (Salusio IV) e Comita di Torres contro i Giudici in condòmino Pietro I e Ugone I d'Arborea.
Il Giudice Salusio IV e il Giudice Comita erano parenti di Barisone I de Lacon Serra Giudice di Arborea. Alla morte di Barisone I (1174), sul Giudicato di Arborea si contesero il trono Pietro I de Lacon Serra, suo figlio, e Ugone I, suo nipote; il primo sostenuto dai pisani, il secondo sostenuto dai Genovesi e dal re d’Aragona. Seguì un periodo confuso e, nel 1192, i due contendenti si accordarono per governare in condomino il Giudicato.
Rivendicarono, però, il loro diritto di successione al Giudicato anche i Giudici di Calari e di Torres. Questi si allearono e nel 1195 occuparono Oristano, che fu messa a ferro e fuoco; fu fatto prigioniero Pietro I, mentre Ugone I si salvò con la fuga insieme al vescovo Giusto; fu distrutta anche la sua cattedrale, una bella chiesa romanica-pisana.

Castello di Las Plassas, delimitava il confine tra il Giudicato di Cagliari e il Giudicato di Arborea

Nel 1204, alla morte di Pietro I, Salusio IV di Calari si accordò con Comita e salì al trono del Giudicato di Arborea in condomino con Ugone I; trovandosi così sul trono di due Giudicati.
Nel 1206, avendo Ugone sposato la figlia di Salusio, Preziosa, si accordò col terribile suocero, al quale cedette metà della Marmilla, e rimase unico Giudice di Arborea, ridimensionato nel suo territorio.
Non si sa cosa ottenne il Giudice Comita di Torres, oltre l’indebolimento del Giudicato di Arborea.
Il Giudicato era diviso in sedici Curatorie; ecclesiasticamente aveva un’Archidiocesi (Santa Igia) e tre Diocesi (Sulcis, Dolia e Suelli).
Quasi tutti i primi Giudici di Plumini, che da ora chiameremo di Cagliari o Calari, usarono il nome dinastico in alternanza con Salusio; esempio Torchitorio/Salusio, Guglielmo/Salusio, ecc.
A Costantino/Salusio II sarebbero succeduti: Mariano II; Torchitorio II; Costantino II-Salusio III; Pietro-Torchitorio III; Guglielmo I-Salusio IV; Barisone-Torchitorio IV; GuglielmoII-Salusio V; Giovanni/Chiano-Torchitorio V; Guglielmo III-Salusio VI.
Durante il Giudicato di Barisone-Torchitorio IV (figlio di Pietro di Arborea e marito di Benedetta, figlia del defunto Giudice Guglielmo-Salusio IV), o di Bendetta degli Obertenghi marchesi di Massa, avvenne la cessione ai Pisani della collina dove sorse il Castel di Castro e poi la città di Cagliari (1215). 
Questa cessione è attestata da un “documento del 1217 scritto dalla regina Benedetta al pontefice Onorio III”. Ella ci fa sapere che:
- il Giudicato era filo genovese e che, per questo motivo, i Pisani con Lamberto Visconti (Pisano) Giudice di Gallura, con gli alleati filo pisani di Arborea e Torres, le fecero guerra;
- sconfitta, ella fu costretta a giurare perpetua fedeltà ai pisani e a cedere loro "un certo colle con le sue pertinenze. Nel quale poi essi edificarono per sé un munitissimo castello in danno ed occupazione non solo dello stesso Regno di Calari ma di tutta la Sardegna.”.
Durante il Giudicato di Guglielmo III-Salusio VI Orbetenghi, soprannominato “Cepola”, occorse lo scontro finale con i Pisani, che con l’aiuto degli altri tre Giudici sardi sconfissero il Cepola, con “memorabile strage e uccisioni. Distrutta e rasa al suolo Igìa nel 1258, ebbe termine per sempre il plurisecolare Regno di Calari.”.

Cagliari (Castel di Castro) - Torre dell'Elefante

I vincitori si spartirono il territorio giudicale e “il Comune di Pisa tenne per sé la città fortificata di Castel di Castro col suo suburbio di Stampace e Villanova, oltre alle ville di Quartu, Selargius, Sestu e Assemini. La abbellì e la sistemò urbanisticamente”. I pisani costruirono tre accessi monumentali (ancora esistenti) sormontati da alte torri; a Sud porta/torre del Leone (detta poi dell’Aquila, oggi non esiste più la torre); a Ovest la porta/torre dell’Elefante; a Nord la porta/torre di San Pancrazio.

Testo a cura di Giuseppe Mocci - Tutti i diritti riservati