martedì 31 luglio 2012

"IL PRETE MANCATO, POI VACCARO E INFINE UFFICIALE" - di Giuseppe Mocci

Foto d'epoca: Stazione di Oristano

Nel dicembre del 1950 partii da Riola per Orvieto, sede d’esami per il concorso di ammissione alla Scuola Unica Ufficiali dell’Esercito.
Presi il treno dalla stazione di Oristano, diretto a Olbia. Ricordo che nel mio vagone viaggiava un altro giovane vestito maluccio; aveva un paio di scarpe vecchie e un cappotto di orbace, unto e sfilacciato. Egli stesso si sentiva a disagio e per questo motivo, forse, rimaneva in disparte. Pensai che fosse un vaccaro o un pastore.
Arrivato a Olbia, scesi dal treno con comodo e m’imbarcai, fra gli ultimi, sul traghetto “Città di Siracusa”, una vecchia nave della Tirrenia, sporca e maleodorante. Era il mio primo viaggio in nave per il continente, quindi, privo di esperienza, mi accodai alla numerosissima fila di viaggiatori che fu sistemata in un camerone sporco e maleodorante.
Ricordo che alcuni, esperti di viaggio su quella nave, stendevano sul pavimento dei giornali, sopra i quali posavano una coperta, e ivi si coricavano. Io, che non avevo giornali e vestivo elegantemente, non rimasi in quella bolgia; salii sopra, in una lunga terrazza all’aperto, e vi rimasi per tutta la traversata, seduto in un lungo sedile assieme ad altre persone. Non appena la nave arrivò a Civitavecchia, con gli altri che avevano fatto la notte sulla terrazza, sbarcammo per primi e subito raggiungemmo il treno per Roma. Dopo una mezz’oretta, arrivarono anche i viaggiatori della “bolgia”, puzzolenti e visibilmente sporchi; molti di essi si erano sentiti male; avevano a lungo sofferto il mal di mare, con abbondanti e numerose vomitate.

Foto d'epoca: il "Città di Siracusa" in navigazione

Salì sul treno anche il nostro giovanotto, col cappotto di orbace sulle spalle, bagnato a chiazze e puzzolente; poiché era arrivato fra gli ultimi, rimase in piedi per tutto il viaggio.
Appena arrivammo alla stazione di Roma Termini fui fermato da un graduato dell’Esercito del Comando della Stazione, il quale mi chiese se fossi un aspirante allievo ufficiale. Alla mia risposta affermativa, questo militare mi accompagnò al treno che mi avrebbe portato alla mia destinazione. Trovai il vagone pieno di giovani che, come me, andavano a Orvieto per lo stesso motivo. Facemmo le conoscenze, declinando la provenienza; venivamo da tutte le regioni d’Italia.
Ricordo che durante il viaggio, alcuni andarono in giro negli altri vagoni allo scopo di fare la conoscenza di altri colleghi; io, invece, stanco del viaggio, mi addormentai fino all’arrivo alla stazione di Orvieto. Qui, sul piazzale, trovammo una decina di autocarri con i quali ci portarono in una grande caserma militare (mi pare fosse dell’Aeronautica), dove mi accorsi della presenza del vaccaro, salito sul treno a Oristano.
All’appello dei partecipanti al concorso, appresi che il nostro vaccaro era nativo di un paese dell’oristanese non molto distante dal mio, che era nato nel 1925 e che era laureato in leggi. Mi disse anche che suo padre, allevatore, conosceva mio padre, al quale vendeva formaggio.
Finiti gli esami e le varie visite mediche, tutti fummo rimandati a casa. Io, durante il rientro, mi fermai a Roma con altri tre sardi che conoscevano la città. Fu per me una scoperta meravigliosa e molto interessante.
Ai primi di Marzo del 1951, mi chiamarono alla frequenza del VII° Corso Allievi Ufficiali con sede a Lecce. Ricordo che appena sceso dall’autocarro, nel cortile della caserma, mi sentii chiamare: “Oh Mocci di Riola, io sono arrivato ieri e mi hanno assegnato alla seconda compagnia!
Io, invece, fui assegnato alla prima compagnia, al primo piano della sua stessa palazzina. Il collega, ex vaccaro, non mi lasciò più in pace, mi cercava tutti i giorni, per qualsiasi motivo. I colleghi della sua compagnia non lo tenevano in nessuna considerazione, soprattutto perché era “sardegnolo” e lo avevano visto prima, vestito in borghese, per cui lo chiamavano “il pastore sardegnolo”.
Uno dei primi giorni, durante il periodo di riposo, egli mi raccontò la sua storia, che io già conoscevo da un mio compagno di liceo, suo compaesano, da me interpellato al rientro da Orvieto.
L’ex vaccaro, dopo la frequenza delle elementari nel suo paese, fu inviato a Cuglieri per frequentare il Seminario vescovile. Il padre voleva fare di lui un prete; consuetudine questa ancora radicata negli uomini di un certo censo, ma ignoranti. Il nostro giovane non aveva nessuna vocazione; infatti, arrivato all’ultimo anno di corso, abbandonò il seminario.

Foto d'epoca: Seminario di Cuglieri

Il padre padrone, allora, lo mandò ad accudire la stalla e a guidare la mandria al pascolo. Egli era diventato un vaccaro e vestiva anche come i vaccari. Ubbidiente, rimase vaccaro per ben cinque anni, ma nel frattempo, egli, da privatista, prese il diploma del liceo classico; poi s’iscrisse alla facoltà di leggi e si laureò regolarmente.
Arruolatosi militare, pensò solo a studiare; non usciva mai dalla caserma in “libera uscita”. Poiché non aveva un fisico da atleta come la maggioranza degli altri colleghi, l’istruttore gli dava sempre un brutto voto e lo apostrofava malamente; non riuscì mai a saltare il muro del percorso di guerra. Poiché quattro insufficienze in altrettante materie erano motivo di espulsione dal Corso, il nostro ex vaccaro studiava molto, riportando i voti più alti in tutte le altre materie.
Ricordo che un giorno, a un mio rimprovero perché non usciva mai in “libera uscita”, mi rispose. “Mocci, questi mi vogliono mandar via, ma io li frego! Con una sola insufficienza non possono mandarmi via. Io voglio far carriera militare, e poiché sono laureato in leggi mi devono mandare in Commissariato, come io ho chiesto nella domanda di arruolamento. Farò l’ufficiale Commissario!”. E così fu. Dopo trent’anni di servizio andò in pensione col grado di Colonnello del corpo Commissariato dell’Esercito. 

Testo di Giuseppe Mocci - tutti i diritti riservati.
Editing G.Linzas

domenica 29 luglio 2012

Intervista a Tzia Efisia Brundu

Riproponiamo, in questo post, l'interessantissima intervista del 2008 a Tzia Efisia Brundu, oggi ultranovantenne. 
Tzia Efisia, attraverso il racconto della sua storia (personale e familiare), ci riporta indietro nel tempo, rievocando un piccolo mondo antico, fatto di tradizioni e di saperi, ormai scomparso.



Intervista pubblicata sul sito  www.sardegnadigitallibrary.it
Autore Luigi Olivo - Regista Gianfranco Cabiddu

venerdì 27 luglio 2012

“Divertimenti a Riola negli anni ‘30” - di Giuseppe Mocci

Negli anni '30 del secolo scorso, a Riola, durante la stagione estiva, veniva un carrozzone attrezzato per la proiezione di film muti. Erano tutti film americani e quasi sempre del filone “Far West”, interpretati dal famoso attore Tom Mix (cowboy, eccellente pistolero), più qualche film del famoso personaggio comico Charlot, interpretato da Charlie Chaplin, e dell’altrettanto famoso attore italiano Rodolfo Valentino.
I film venivano proiettati nella piazza principale del paese, in via Umberto I, di fronte alla fontanella pubblica, sempre di sabato sera.
Non ricordo se si pagasse il biglietto; ma forse no, perché noi ragazzini, che non avevamo soldi, eravamo sempre presenti e numerosi. I proprietari del carrozzone, probabilmente, si accontentavano della gratitudine degli spettatori e di qualche piccola offerta.
Nello stesso periodo arrivava in paese un Circo Equestre, che veniva sistemato sempre nella via Umberto I, nella piazza antistante alla casa di Antiogu 'Ochi (Antioco Loche).
Era un modesto circo con il solito clown, il trapezista, quattro ballerine scalcagnate, un elefante e due leoni affamati e vecchi. Si pagava il biglietto, forse mesu pezza.
Frequentavano il Circo, oltre ai riolesi, i baratilesi e i nurachesi. Ricordo che di domenica sera il Circo era sempre pieno.
Riola, inoltre, ospitava spesso un prestigiatore di nome Mario Radius. Egli era nativo di Narbolia, ma aveva appreso il mestiere, diceva lui, in America.
Diventato famoso, girava l’Italia per proporre i suoi spettacoli di prestigio. A Riola, Mario Radius teneva i suoi spettacoli nei locali del Monte granatico (su magasĩu de su monti), su un palco fatto da tavoloni e pali prestati, gratuitamente, da mio padre. La mia famiglia, per questo motivo, aveva sempre l’ingresso gratuito.
Il signor Radius, di statura bassa, faccia tonda e tempie alte, oltre ad essere un bravo prestigiatore, era una persona molto gentile ed elegante. Egli aveva anche una collaboratrice, giovane e bella; era la sua abile spalla, che riusciva sempre a distrarre il pubblico e a mascherare i trucchi e gli imbrogli del prestigiatore. Lo spettacolo, comunque, era sempre molto gradito dagli spettatori.
I balli erano, allora, il pezzo forte dei riolesi. Questi, organizzati da un Comitato, si tenevano in “Sa ruga Manna”, via Garibaldi. 

Il fisarmonicista riolese Efisio Luigi Mocci (1889-1974)  *

Il suonatore, per tanti anni, è stato il famoso fisarmonicista riolese Effi Luisu Motzi (Efisio Luigi Mocci).
Si trattava, quasi sempre, di “balli sardi”. Ogni tanto Èffisi suonava un valzer o un tango, ma erano rarissimi i ballerini.
Egli diceva di avere molta nostalgia per il periodo in cui, in America, suonava tutti i famosi balli continentali, oggi ancora in voga.
Pare che per questo motivo si sia trasferito in un paese del Campidano di Cagliari, dove si ballavano molto anche i balli di suo gradimento.
Con la partenza di Effì Motzi fu ingaggiato un fisarmonicista di San Vero Milis, un certo Lepori, conosciuto come "Lèpini", bravo solo a suonare balli sardi. Altra musica, che non uguagliava quella bellissima di Èffisi.

* Foto Efisio Luigi Mocci tratta dal libro di Claudio A. Zoncu "Zenti Arrioresa.

Testo di Giuseppe Mocci - Tutti i diritti riservati



mercoledì 25 luglio 2012

FESTA DI SANT'ANNA 2012 - PROGRAMMA

Foto d'epoca: processione di Sant'Anna

SANT'ANNA - RIOLA SARDO 
25/26/27/28 Luglio 2012

MERCOLEDI 25 LUGLIO - Sant'Anna - San Gioacchino
festeggiamenti religiosi
ore 19,00  Vespri
festeggiamenti civili 
ore 22,00   GARA DI CHITARRA: Figos De Nanni, Masala, Malutrottu e Caddeo


GIOVEDI 26 LUGLIO - Sant'Anna - San Gioacchino
festeggiamenti religiosi
ore 8,00      Prima Messa
ore 10,00    Processione - Santa Messa
festeggiamenti civili
ore 22,00  Complesso KANUSIE progetto DAMA BIANCA
ore 23,30   S'ARRODA spettacolo pirotecnico ditta Oliva Giorgio, prosegue la serata il complesso KANUSIE


VENERDI 27 LUGLIO - San Martino
festeggiamenti religiosi
ore 8,00      Prima Messa
ore 18,00    Processione - Santa Messa
festeggiamenti Civili
ore 22,00    Complesso CUORE MATTO, musica latino americana, liscio, ecc.


SABATO 28 LUGLIO
ore 22,00 RASSEGNA COMPLESSI ROCK



Locandina del programma


(g.l.)

martedì 24 luglio 2012

La Compagnia Teatrale "Arriora" chiude la Rassegna Teatrale di "E...state a Riola 2012"


Sabato 21 luglio la Compagnia Teatrale “Arriora”, con una straordinaria e brillante prova recitativa, ha chiuso la Rassegna Teatrale della 2a edizione di “E…state a Riola 2012, sa festa de is arrùgasa”, rappresentando la commedia sarda “TRE DISI DE VIDA” dell’autore Oristanese Ugo Orrù, libereramente adattata da Lionello Loddo. 
L’ultimo appuntamento della rassegna ha avuto luogo in “sa ruga de Pagõi”, dove un pubblico incredibilmente numeroso ha assistito, piacevolmente divertito, alla commedia portata in scena dai bravissimi attori della Compagnia riolese. Tra tutti hanno spiccato Gervasio Corrias (Arramundu Corrittu) e Amelia Piras, protagonisti principali; senza scordare, peraltro, le ottime prove di Alba Corrias, Vincenzo Cadoni, Mario Zoncu, Salvatore Zichi, Marisella Camedda e Ignazio Corrias.
La commedia rappresentata dalla Compagnia Teatrale di casa, quindi, ha chiuso il ciclo delle commedie che, nell’arco di un mese, hanno animato i diversi rioni del paese, con la partecipazione straordinaria di altre tre compagnie provenienti da vari paesi della Sardegna: “A.S.D.C. MARMILLA” di Ussaramanna, Compagnia Teatrale “IS FAZZOAS” di Narbolia e Compagnia Teatrale “PABASA A SOI” di Silì.


Il riscontro positivo di pubblico registrato in tutte le serate di “E…state a Riola 2012” conferma il gradimento dei riolesi per questa manifestazione che cresce di anno in anno, premiando lo sforzo organizzativo e l’impegno del Comitato Permanente Riolese e della Compagnia Teatrale “Arriora” (coadiuvati dalla Proloco, dai rappresentanti dei rioni e dal gruppo de “is amìgusu”).
L’ultimo appuntamento in programma, che chiuderà in bellezza questa seconda edizione di “E…state a Riola 2012, festa de is arrùgasa”, è fissato per sabato 4 agosto, con la “cena sociale sotto le stelle” che si terrà nel parcheggio di Via Regina Elena, angolo via M.L. King, alle ore 20,30 (le prenotazioni sono aperte ancora per pochi giorni).

Video-galleria fotografica Commedia "Tre disi de vida"


(g.l.)

venerdì 20 luglio 2012

Còntusu: “SA MOTOTZICRETTA” di Giuseppe Mocci

Da ragazzino, dopo le scuole elementari, Allàriu Motzi ha fatto“su ssienti”, ossia l'apprendista, con suo padre Gaetãu, di professione “Maist’e muru”.
Dopo dieci anni (e siamo nel 1919), “Allàriu béssidi, issu puru, maist’e muru” e si mette in proprio con tre “ssièntisi”: Zuanni Codra, Dumìnigu Daga e Antõi Asi.
Negli anni venti, grazie ai lavori eseguiti sotto la direzione dell’Ing. Sanjust, diviene un esperto nella realizzazione di lavori in cemento armato (materiale e tecnica innovativa che in quegli anni iniziavano ad essere utilizzati nell’edilizia civile).

palazzina fam. Mannu - via Umberto I

Nel corso di quel decennio Allàriu, con i suoi tre “ssièntisi”, costruisce a Riola molte case di abitazione, e fra queste tre palazzine con soletta in cemento armato: una era di proprietà di Taniei Mannu, una “de su ragionieri Pàulu Mannu”, in corso Umberto I, e una “de Pedru Enna” in via Regina Elena. Queste palazzine sono ancora oggi esistenti ed abitate.
Fino ad allora, in paese c’erano soltanto altre due palazzine: la casa de “su Zenerali Catta, con soletta in cemento armato, e la caserma dei Carabinieri, con solaio di legno, entrambe in via Roma.
All’inizio degli anni '30 Allàriu, sempre sotto la direzione dell’Ingegner Sanjust, inizia l’attività di piccolo impresario, svolgendo per alcuni anni parecchi lavori nella Marmilla: Nureci, Assolo, Asuni, ecc.
I muratori dell’impresa, tutti di Riola, erano i suoi vecchi ssièntisi, divenuti ormai esperti  "Maìstusu; gli altri apprendisti e i manovali invece erano del posto.
I predetti “Maìstusu” partivano in bicicletta da Riola per raggiungere i luoghi di lavoro nei lontani paesi della Marmilla il lunedì, prima dell’alba, e rientravano in paese il venerdì sera; il sabato non si poteva lavorare perché era destinato all’addestramento militare dei giovani fascisti (dai diciasette ai ventuno anni) e alle cerimonie del Partito Fascista. Questo giorno era chiamato infatti “sabato fascista”.
Allàriu, quindi, considerate le esigenze della sua attività in fase di costante sviluppo, si dovette comprare una motocicletta (una Moto Guzzi), che gli era necessaria per raggiungere i cantieri di lavoro e per il disbrigo delle pratiche relative agli appalti, pagamenti e altre incombenze varie.

Moto Guzzi anni '20

Questa motocicletta, una delle poche presenti a Riola in quel periodo, fu al centro di vari episodi straordinari e divertenti; tra questi, uno in particolare è rimasto famoso.
Allàriu spesso con la sua moto dava un passaggio fino ad Oristano a qualche riolese, ma non riuscì quasi mai a portare un suo amico, Zuanni Bellu, su Maist’e ferru, che abitava di fianco a casa sua.
Finalmente, un giorno, capitò l’occasione; Zuanni fu costretto a chiedere all’amico un passaggio per Oristano, perché la sua bicicletta era guasta e doveva ordinare del materiale per la sua bottega.
I due amici si accordarono per partire di buon mattino. La strada per Oristano, allora, era in terra battuta con uno strato di ghiaia. Ai lati, alternati a breve distanza uno dall’altro, c’erano dei cumuli di ghiaia che restringevano la carreggiata; solo dopo il Rimedio la strada era asfaltata, unica in Sardegna.
Essi partirono da via Roma (dal civico numero nove), dopo che Allàriu ebbe dato alcuni consigli all’amico su come stare in moto.
Il viaggio andò bene fino a metà strada finché, a un certo punto, Zuanni strattonò la spalla del conducente e gli gridò:
Allàriu, frimma tiau, frimma… ca mi nch’esti boau su bonetu!.
Fermata subito la moto e messo il cavalletto, i due scesero per recuperare il berretto che il vento aveva sospinto sopra un’alta siepe di fichidindia.
Ripartirono quasi subito, e fino a Donigala tutto procedette per il meglio, tanto che i due ogni tanto si scambiavano qualche parola.
Giunti al Rimedio, dove iniziava il bel tratto di strada asfaltata, Allàriu avvisò l’amico:
Zuanni, immoi afferradì bẽi ca currèusu a chentu chilometrusu a s’ora, tiau!
Il motociclista si curvò un poco e accelerò. La moto divorò la strada e, in quattro e quattr’otto Allàriu arrivò ad Oristano.

foto d'epoca: Oristano via Tirso

Si fermò in via Tirso e, senza voltarsi, chiese all’amico:
E issàrasa Zuanni, t’esti pràcchia sa cursa?
Non ottenendo alcuna risposta, mise il cavalletto alla moto e si voltò, ma dell’amico non c’era traccia. Allora il nostro motociclista, preoccupato per non esser capitato qualcosa di grave all’amico, ripercorse la strada fino al Rimedio, dove finalmente lo ritrovò seduto sull’ultimo cumulo di ghiaia, che si lamentava per il dolore e per le escoriazioni riportate.
Zuanni, ita tiau asi fattu? gli chiese Allàriu.
L’amico, sconfortato, gli rispose:
Eh… za dd’appu fatta bella, Allàriu! 
Candu tui asi cumintzau a curri comenti ũ dimòniu, no appu accudiu a m’afferrai bẽi a sa mototzicretta, e chi seu boau asusu de ũ muntõi de zarra commenti ũ tzappu. 
Balla, ma no m’as a frigai prusu! 
Teniu arrasõi deu ca sa britzicrett'e fogu esti de timmi. Esti troppu perigulosa!. 
Bai, bai Allàriu, ca deu aspettu sa carrotza de Arrosa ‘Ochi, e za ‘nchi torru a Arriora cũ issa. 
Bai, tocca, bai! E m’arracumandu, cammina abbellu!

Testo di Giuseppe Mocci - Tutti i diritti riservati

Revisione dialetto riolese: B.Sulas

venerdì 13 luglio 2012

"LA BANDIERA DELLA SARDEGNA: I QUATTRO MORI" di Giuseppe Mocci

Bandiera ufficiale della Regione Sardegna

Il Professor Franciscu Sedda, docente nelle Università di Sassari e Roma, con la sua opera “La vera storia della bandiera dei sardi”, cerca di fare chiarezza sulle vicissitudini della bandiera che rappresenta i sardi e con un articolo sull’Unione Sarda del 27 ottobre 2007 riassume i nodi della vicenda.
“Nel 1409, pochi giorni dopo la battaglia di Sanluri, il Re Martino il Vecchio, compiaciuto delle notizie che arrivano dal figlio Martino il Giovane, comandante dei catalano-aragonesi in Sardegna, scrive agli altri sovrani per informarli dello sterminio e l’esecuzione nei confronti della nazione sarda traditrice e ribelle e per rendere loro noto che durante la battaglia dei soldati sono riusciti a impadronirsi della bandera dels sards”.
In quella Battaglia, e durante la centenaria lotta contro un esercito invasore (prima Pisa, dopo i catalani-aragonesi), la bandiera della nazione sarda era costituita da un albero deradicato verde in campo bianco, inizialmente simbolo del Giudicato d’Arbarèe.
In quello stesso periodo la bandiera della Corona d’Aragona era costituita da “le barras catalane e i pali rossi e gialli.”. Ma sul campo di battaglia sventolava anche il vessillo personale del Re Aragonese, con i quattro mori, “quattro teste senza benda e dai tratti marcatamente africanizzanti”. 

Sigillo del Regno Aragonese

Dell’esistenza di questo vessillo si ha la certezza da “un sigillo del 1281 e sembra indicare sia la "Reconquista" iberica nei confronti dei mori (i mussulmani), sia l’unificazione fra Aragona, Catalogna, Valencia e Maiorca in un nuovo tipo di confederazione politica".
La bandiera con i quattro mori viene poi usata dai sardi dal 1590, in piena dominazione spagnola, come risulta dallo Stamento militare della Sardegna. I quattro mori erano rivolti a sinistra e avevano la benda sulla fronte. Questa bandiera indicava “uno dei fedeli Regni del sovrano di Spagna.”
“I quattro mori vengono usati tanto abbondantemente dai Sabaudi (Savoia) che se ne ritrovano contemporaneamente con benda sulla fronte e benda sugli occhi.”
Dopo la prima guerra mondiale, i quattro mori con la benda sugli occhi furono scelti dai sardisti a simboleggiare il "vittimismo” dei sardi, in secoli di dominazione straniera.
Con l’avvento della Regione Autonoma della Sardegna (1950), su proposta del Partito Sardo d’Azione, la Bandiera ufficiale della Regione diviene quella dei Quattro mori, con la benda sugli occhi. Nel 1999, con un'apposita legge regionale, fu adottata l'attuale versione della bandiera, con la benda che non copre più gli occhi dei quattro mori e gli sguardi rivolti all'opposto dell'inferitura, cioè a destra.
Purtroppo, oggi, si vedono tante bandiere dei quattro mori, con o senza benda e lo sguardo rivolto a destra o a sinistra. Nessuno si cura di far rispettare il dettame della legge regionale. Le tipografie ne stampano di tutti i tipi, quasi tutti sbagliati. Gli stessi funzionari regionali fanno quello che vogliono.
Un esempio: a Ozieri, sulla facciata del fabbricato, dove c’è un importante ufficio della Regione, è stata disegnata una grande bandiera dei quattro mori con lo sguardo verso sinistra.

Curiosita’ sulla bandiera dei quattro mori: La battaglia di Lepanto (1571)

La “Battaglia di Lepanto” fu combattuta e vinta dalla Lega Cattolica (auspicata dal Papa Pio V, ne facevano parte: Venezia con 115 galee, Spagna con 83 galee, Toscana e Savoia con 3 galee ciascuna; era comandata da Don Giovanni d’Austria) contro i Mori nel 1571, nel golfo di Corinto.
Negli anni successivi, molti pittori dipinsero questa famosa battaglia navale con i numerosi navigli; su uno di questi sventolava, in bella evidenza, la bandiera dei quattro mori. Quindi, tutti supposero trattarsi di reparto di sardi.
Invece, ormai è sicuro che alla famosa battaglia non vi parteciparono i sardi. Infatti, quella bandiera apparteneva al “tercio Reggimento di Sardegna” che si chiamava cosi perché era di stanza in Sardegna, ma era composto da catalani, aragonesi e maiorchini, tutti spagnoli.

Testo di Giuseppe Mocci - tutti i diritti riservati.
Editing G.Linzas

mercoledì 11 luglio 2012

Antichi mestieri: "SU MAISTU E SU SSIENTI" di Giuseppe Mocci

Fino agli anni ‘50 del secolo scorso, a Riola, si praticavano i seguenti mestieri o professioni artigianali: "Maist'e muru"; "Maist'e pànnusu"; "Maist'e ferru"; "Maist'e linna"; "Maist'e crapìtasa"; "Lattarranneri".
Ogni “Maistu” era coadiuvato da uno o più “ssienti”, ossia gli apprendisti.
"Su Maist'e muru” o “muradori” e "su Maist'e linna” erano gli artigiani più numerosi, perché molti erano anche i clienti. Infatti, oltre ai giovani futuri sposi, che dovevano costruire casa, c’erano tutti gli altri che avevano bisogno di riparazioni alle case e ai mobili.
In quel periodo, fra i “Maìstusu de muru”, era famoso per bravura professionale un certo Zuanni Codra. I suoi ssièntisierano i figli.
"Su ssienti", generalmente, rimaneva col suo “Maistu” molti anni e, spesso, continuava la sua professione in società col medesimo artigiano.
Al riguardo, ricordo di un certo “ssienti” che, rimasto appena un anno con un “Maistu”, si mise subito in proprio. Si rivelò, com’era naturale, un incapace.
Del suo lavoro è rimasto famoso un aneddoto che riguarda la costruzione di un muro di cinta a un terreno. Il muro era stato elevato visibilmente inclinato e il padrone, che gli aveva commissionato l’opera, vedendola realizzata, gli disse:
Itta tiau asi fattu! 
No ddu bisi ca su muru no esti a prummu? 
Cussu, oi o crasi, 'nd’arrùidi!
L’improvvisato e inesperto muratore, sentendosi toccato nell’orgoglio, gli rispose:
E inchi tiau ti dd'adi naũ? 
Su muru, tiau, esti a prummu! 
Àntzisi, esti a prummu e pru' de prummu!
Praticamente, con questa risposta egli confessò la sua ignoranza.
Fra i Maìstusu de linna, era famoso un certo Zuseppi Motzi, che insegnò il mestiere a tre “ssièntisi”, i quali rimasero nella sua bottega diversi anni e divennero bravi e ricercatissimi.
C’era anche un altro “Maist'e linna", famoso per la sua incapacità e presunzione, dovute anche al fatto che rimase in bottega meno di un anno.
Anche questo “ssienti”, come il muratore di cui sopra, si mise subito in proprio, ma con risultati pessimi. Lavorava poco e le commissioni di lavoro erano, generalmente, modeste: piccole riparazioni, costruzione di sportelli di legno di poco valore per porcilaie, cancelletti d’ingresso a terreni o a ovili sempre in legno di poco valore.
Questo incapace “Maist'e linna” non disponeva nemmeno di una bottega, lavorava quasi sempre fuori casa, raramente nel corridoio della sua abitazione d’inverno, mentre d’estate eseguiva i pochi lavori in cortile; egli, poi, non ha avuto mai uno “ssienti”.
Tra i Maìstusu de ferru, Zuanni Bellu era il più famoso per capacità professionale.
Nella sua bottega c’erano sempre due o tre “ssièntisi”, compreso il figlio Salvatore. Questi “ssièntisi” divennero bravi, quasi quanto il loro “Maistu”.
Tutti i “Maìstusu” sopra citati erano riolesi, mentre su Maist'e pànnusu, capace professionalmente, era di Zeddiani: Tommaso Murru. Anche nella sua bottega c’era uno “ssienti”.
Altro artigiano, non riolese, era su Lattarranneri, unico e capace. Egli proveniva forse da Oristano, ma non ne ricordo il nome.
Questi costruiva recipienti in latta, di forma cilindrica, per la conservazione dell’olio; recipienti leggeri che sostituirono izìrusu di terra cotta, pesanti e ingombranti. Egli costruiva anche brocche, imbuti e recipienti vari. Anche nella sua bottega c’era uno “ssienti”, il figlio, divenuto anche lui un bravo “Lattarranneri”.

immagine tratta dal sito www. lavorazioneincuoio.it

Su Maist'e crapìttasa”, anch’egli non riolese, proveniva da Narbolia e si chiamava Tziu Bacchìsiu Marongiu, un bravissimo calzolaio. Nella sua bottega lavoravano tre “ssièntisi”, i suoi tre figli, tutti bravissimi e grandi lavoratori.
La bottega di Tziu Bacchìsiu era l’unica a Riola, anche perché le scarpe, allora, erano usate da poche persone e solo d’inverno. L’uso quotidiano delle scarpe, in tutte le stagioni, ebbe inizio subito dopo la seconda guerra mondiale e fece la fortuna dei Marongiu.

Note:
L'ultimo "Lattarranneri" a Riola è stato "Arramundu Maõi" (Raimondo Meloni), la cui bottega era in via Roma.

Testo di Giuseppe Mocci - Tutti i diritti riservati.

Revisione dialetto riolese B.Sulas

lunedì 2 luglio 2012

“SU TIAU” di Giuseppe Mocci

Altra stupefacente invenzione dell’uomo: il Diavolo, “su Dimòniu, su Tiau. Colui che crede di essere il più furbo, il più intelligente, il più colto, il più forte, il più bello, il più potente, il più di tutto insomma. Le sue qualità, volte al male, sono conosciute e temute da tutti.
S’arrioresu, in un certo qual modo, non ha paura “de su Tiau”, forse perché ne fa la sua conoscenza fin dalla nascita. Il padre, infatti, pensando al nome da dare al nascituro, esclama:
E ita tiau de nòmini dd’app’a ponni a custu pippiu?
Inconsciamente, pronuncia il nome “de su Dimòniu”, ma lo chiama familiarmente “Tiau”, poiché lo ritiene un essere diverso dal Diavolo o “Dimòniu” degli altri paesi e città.
Egli non ha mai avuto un concetto negativo “de su Tiau”, forse proprio perché non lo identifica in quell’essere malvagio che tenta l’uomo e lo manda all’inferno, come il Diavolo o “su Dimòniu de sa Crésia e de is credèntisi”.
"Tiau" è anche una semplice parola, un intercalare che lo aiuta a esprimersi. Il riolese, infatti, usa ancora oggi tanti modi di dire con la parola “Tiau”.
Le frasi ricorrenti in molti discorsi sono: Ita tiau sesi fendi?; A innui tiau sesi andendi?; Alla su tiau chi t‘a fattu!;Ita tiau fadèusu oi?; Ita tiau de òmini esti cussu?; ecc. 


incisione raffigurante il demonio (su tiau)

In merito alla vita e alla pratica religiosa dei riolesi, va detto che parecchi di loro, credenti per tradizione, spesso trascurano ciò che riguarda la Chiesa e i suoi insegnamenti; per queste cose delegano le mogli. Infatti, a esse e ai nonni è affidato il compito di acculturare, cristianamente, i mariti, i figli e i nipoti. 
Al riguardo, ricordo mio nonno Gaetano, religiosissimo, che con me usò un metodo speciale. Non mi parlò mai dell’esistenza di un altro mondo, del paradiso o dell’inferno. Mi chiedeva se andavo in chiesa la domenica, se frequentavo il catechismo e, soprattutto, se praticavo la confessione e la comunione con assiduità.
Ricordo che una volta, avuta la mia risposta affermativa alle sue solite domande, quasi come premio, mi propose di leggere un libro di un autore francese sulla vita di due Marescialli Napoleonici.
Io accettai subito la proposta perché ero, allora, un tifoso di Napoleone Bonaparte. La lettura di questo libro fu di mio piacevole gradimento e mi influenzò, dal punto di vista religioso, per almeno trent’anni. 
La trama del libro era la seguente: i due Marescialli francesi, grandi amici e fervidi sostenitori di Napoleone, durante la ritirata dalla Russia si ritrovarono in un ospedale da campo, entrambi feriti. Uno, che chiameremo François, era ferito leggermente, perciò fu subito curato e dimesso. Ricordandosi del collega suo grande amico, di nome Jean, si recò in segreteria per avere informazioni. Gli dissero che il Maresciallo Jean S. si trovava lì, ricoverato per gravi ferite riportate durante la ritirata. 
François si fece subito accompagnare dal collega, che trovò tutto fasciato, dai piedi alla testa. Inchinatosi, sussurrò all’amico il suo nome, poi gli augurò una pronta guarigione e un arrivederci a Parigi. Jean strinse forte le mani del collega, al quale, con un filo di voce appena udibile, disse: Carissimo amico, io sto morendo, ci rivedremo nell’altro mondo!
François, alquanto meravigliato per la risposta dell’amico, esclamò:
Jean, stai scherzando? Ma noi non siamo stati sempre atei? Tu lo sai che l’altro mondo non esiste. Coraggio, fra non molto ci ritroveremo a Palazzo con l’Imperatore!
Al che Jean, con un filo di voce, gli sussurrò:
Amico mio, fra non molto ti farò sapere se esiste l’altro mondo!
Dopo di che, stringendo forte le mani dell’amico, spirò. François, con le lacrime agli occhi, fortemente turbato, uscì dall’ospedale e partì per la Francia, con una comoda carrozza per il trasporto degli alti ufficiali feriti.
Durante il viaggio si addormentò e fece alcuni sogni incoraggianti per il suo futuro, ma ne fece poi un altro che lo sconvolse e lo terrorizzò. Gli apparve in sogno l’amico Jean, sofferente, che gli sussurò: François, l’Inferno esiste ed io ci sono dentro!


Testo di Giuseppe Mocci 

domenica 1 luglio 2012

"ITALO E ALADINO" di Giuseppe Mocci

Recentemente ho fatto visita a un amico, reduce da una lunga degenza ospedaliera a causa delle gravi ferite riportate in un incidente stradale. L’amico, di nome Italo, ormai risanato, mi ha raccontato la dinamica dell’incidente e poi di uno strano sogno fatto quando era ancora in coma.
In pratica Italo, in questo suo sogno, si considerava già morto.  All’ingresso del Paradiso, si trovò davanti a San Pietro (come da immaginario collettivo dei cristiani praticanti, per fede o per tradizione), il quale, bonariamente, lo fermò e gli chiese le generalità. Italo, fiducioso, gli disse nome, cognome e data di nascita. San Pietro, controllato il suo registro, gli rispose: “Senta…qui ci sono Italo Balbo, Italo Svevo e Italo Sardo, ma il suo nome non figura. Vada ai piani sottostanti!


Italo, a questo punto, pensando di dover scendere in Purgatorio o nell’Inferno, iniziò a preoccuparsi non  poco, quando sentì scorrere dolcemente una mano sul suo viso e si svegliò di colpo, dal sogno e dal coma. Era la mano della sua compagna, che fiduciosa lo accarezzava amorevolmente.
Dopo aver ascoltato questo racconto, lo rassicurai: “Non è arrivato il tuo momento, caro Italo, goditi in pace e amore quanto ti manca”, gli dissi, e gli raccontai due storielle sulla Morte, citando prima il famoso poeta latino, Virgilio, che in merito alla Morte scrisse: “Stat sua cuique dies”, cioè a ognuno di noi è stato fissato dal Destino il suo giorno, un momento inesorabile in cui ognuno di noi deve morire, a prescindere dalle credenze religiose per fede o per tradizione dei cristiani, dei musulmani e delle altre numerose religioni.
La seconda storiella, riportata da un famoso scrittore italiano ora scomparso, riguarda un indiano di nome Aladino, che un giorno, mentre si trovava al mercato, si sentì braccato dalla Morte apparsagli nelle sembianze di una vecchia, alta, magra e brutta, con in mano un’enorme falce. L’indiano, terrorizzato dall’incontro, rientrò a casa e progettò subito di scappare dalla sua città.
Egli non possedeva nessun mezzo di trasporto, quali automobile, motocicletta, cavallo o altra bestia, e naturalmente non poteva prendere alcun altro mezzo pubblico (treno o pullman); doveva scappare segretamente, nessuno doveva saperlo.
Allora si recò da un suo amico, uomo ricco, potente autorità della città, al quale raccontò l’incontro con la Morte che lo voleva ghermire. Il nostro eroe, subito dopo, chiese all’amico: “Ho bisogno del tuo aiuto, mi devi prestare uno dei tuoi veloci cavalli, perché voglio andarmene lontano da qui, almeno a mille chilometri. Voglio andare a Samarcanda!”.
L’autorevole e ricco amico gli fece dare un giovane e velocissimo puledro, augurandoli lunga vita. Il giorno dopo, il medesimo amico, incuriosito dal racconto del povero Aladino, già partito per Samarcanda, si recò al mercato e incontrò la famosa Signora con la falce; la fece fermare da due suoi sgherri e le disse: “Come ti sei permessa di importunare il mio amico Aladino ?”.
La vecchia Signora rispose: “Io non ho importunato nessuno, solo ho guardato con grande meraviglia il tuo amico perché era ancora qui, considerato che l’appuntamento con lui è fissato per domani a Samarcanda, a mille chilometri di distanza.”.

Testo di Giuseppe Mocci - Tutti i diritti riservati
Editing G.Linzas