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sabato 30 luglio 2011

Ricordi d'infanzia: "SA PRALLATA" (Il comizio) - di Giuseppe Mocci

Nel 1937, in piena era fascista, l'Italia era una monarchia costituzionale sotto il Regno di Vittorio Emanuele III di Savoia, Re d'Italia e Imperatore d'Etiopia.
Presidente del Consiglio dei Ministri era Benito Mussolini, che governerà l'Italia, da Dittatore (Dux-Duce), fino al 25 Luglio del 1943. Il Consiglio dei Ministri era formato da soli uomini del suo Partito, perché gli altri partiti erano stati sciolti d’autorità.
A Riola allora eravamo, apparentemente, tutti fascisti, fatta eccezione per un signore proveniente da Zeddiani, sarto, noto antifascista, che era stato un militante del Partito Sardo d’Azione.
Nel 1940 era arrivato in paese un altro antifascista mandato in esilio dal Governo.
Tutti eravamo inquadrati per categorie nel Partito Nazionale Fascista (P.N.F.), dai figli della lupa, i più piccoli, ai balilla, agli avanguardisti, ai giovani fascisti, alle donne rurali, ecc. ecc.
Durante il ventennio fascista, come in tutti i Comuni d'Italia, anche in paese c'era il segretario del Fascio, onnipotente e molto severo con chi non si adeguava alle direttive del Partito.
E' rimasta famosa la purga di olio di ricino imposta con la forza (manganellate, calci e pugni) al sarto zeddianese, perchè non si era voluto iscrivere al Partito e, forse, perché contrastava il Segretario del Fascio.
Il sarto poi, subito dopo la guerra (nel 1946 o '47), si vendicherà facendo processare e condannare il manganellatore e dispensatore dell’olio di ricino, sulla base delle leggi per l'epurazione (subiranno una condanna penale tutti gli ex fascisti colpevoli di malefatte durante il regime).
Su direttiva del Partito, il sabato, detto "sabato Fascista", era dedicato all’addestramento militare obbligatorio dei giovani fascisti, cioè quelli in età prossima al richiamo.
L’addestramento consisteva nella marcia, corsa e uso delle armi da fuoco. Il responsabile dell’addestramento era un fascista di Baratili (allora frazione di Riola), sempre perfettamente vestito in divisa, con la camicia nera e dall’aspetto marziale.
L’esercitazione con le armi (generalmente con un moschetto) avveniva sempre dietro il lavatoio comunale, dove si sparava sul bersaglio sistemato sul muro del medesimo lavatoio.

raduno giovani fascisti a Riola - anni '30

Noi scolari, generalmente, venivamo inquadrati assieme a tutte le altre categorie, in divisa, per le sfilate con bandiera tricolore e gagliardetti.
Ricordo un episodio capitato durante una di queste sfilate, nel 1939 o nel 1940. Sfilavamo sulla via Roma cantando inni pattriottici, diretti verso il Municipio, quando un signore, in sella alla sua bicicletta e col berretto in testa, passò sulla nostra sinistra diretto verso Baratili. Non si fermò e, indifferente nei nostri confronti, tentò di proseguire.
Il Segretario del Partito, che ricopriva una carica pubblica molto importante in Municipio, di fresca nomina e molto severo, raggiunse il malcapitato, lo fece scendere dalla bicicletta, gli tolse dalla testa il berretto e lo prese a schiaffi.
Gli schiaffi erano una prerogativa del nostro Segretario; anche io ne presi da lui una bella serie a scuola.
Era successo che io ed un mio compagno, figlio del nostro Segretario, eravamo venuti alle mani durante la ricreazione e ci eravamo procurati qualche graffio, ma niente di grave.
Il compagno rientrato a casa, interrogato dal padre, rivelò il mio nome come l’autore del suo graffio. Il giorno seguente il Segretario venne in classe, vestito in divisa, chiese di me alla maestra e si precipitò, come un falco sulla preda, sul mio banco e mi diede un paio di ceffoni, minacciandomi un'altra dose più numerosa se io avessi nuovamente picchiato suo figlio.

 
scuole elementari 

Fra le varie manifestazioni che si tenevano, periodicamente, c’era quella importantissima, per il Partito, del Comizio (in riolese “Sa Prallata”), sempre di Sabato sera e in Piazza di chiesa.
Non ricordo per quale occasione il nostro Segretario avesse organizzato il Comizio, rimasto famoso per quello che accadde.
Ricordo, però, che quel Sabato sera, all’ora e nella piazza prestabilite, eravamo in pochi, perché tanti erano andati in chiesa per una novena.
Il Comiziante era un gerarca molto noto, proveniente da Cagliari, che controllava spesso l’orologio e chiedeva agli organizzatori di poter cominciare il suo discorso o sospenderlo; perché, aggiungeva, non voleva perdere l’ultimo treno in partenza da Oristano.
Non sia mai detto... il Segretario del Partito con i suoi collaboratori si recarono subito in chiesa e dopo dieci-quindici minuti rientrarono con numerose persone.
Non ho mai capito come avesse proceduto il nostro Segretario. Alcuni dicevano che i fedeli sarebbero stati cacciati dalla chiesa con calci e minacce da alcuni fanatici, forse gli stessi che l’anno precedente avevano abbattuto i crocefissi della Via Crucis del paese, in odio al Parroco; altri, che il Sacerdote officiante avesse accettato l’invito a concludere subito la funzione religiosa.
Finalmente il Comizio ebbe inizio e durò parecchio; tanto che il gerarca, logorroico, non si accorse del lungo tempo impiegato e non si ricordò nemmeno dell’orario di partenza del suo treno. Non solo, dopo il Comizio, come d’uso, venne offerto un piccolo rinfresco con vernaccia e amaretti.
Il Comiziante improvvisamente si alzò di scatto ed esclamò:
“E ora come faccio a rientrare a Cagliari? Domani mattina ho un impegno di Partito molto importante!”
Gli rispose, tranquillizzandolo, qualcuno della Sezione:
“Eccellenza non si preoccupi, perché Lei rientrerà a Cagliari questa notte!”
Il Segretario, meravigliato, chiese spiegazioni. Gli rispose pronto e determinato l’interlocutore:
“Se il nostro camerata sa guidare la motocicletta, il problema è risolto!”.
Di rimando il Segretario :
“Ma tu non possiedi una motocicletta!”.
Qualche altro, che aveva capito la proposta della motocicletta, esclamò:
“Lo facciamo partire con la motocicletta del camerata Ilario Mocci, fervente fascista e mio compare”.
Allora, il Segretario e i suoi collaboratori si recarono col comiziante a casa del proprietario della motocicletta, contenti di aver risolto il problema.

Gilera 500 - anni '30

Io e il mio carissimo amico Salvatore Bellu, presenti al comizio, avendo sentito la proposta della motocicletta, precedemmo l’arrivo del Segretario e dei suoi collaboratori, per informare mia madre di quanto stava per accadere.
Mia madre, preso atto di quanto noi avevamo riferito, chiuse il portone.
Aveva appena spento le luci quando incominciò un continuo rintocco del battente della porta e l’invito ad aprire da parte del gruppo. Dopo qualche minuto, mia madre, avendo riconosciuto la voce del compare, grande amico di mio padre, aprì.
Alla proposta di utilizzare la motocicletta mia madre oppose un netto rifiuto, specificando i motivi:
“Prima di tutto mio marito non c’è, e voi lo sapete bene perché siete stati voi a convincerlo a partire per l’Africa orientale, per fabbricare case per gli abissini; in secondo luogo non ho la chiave”.
Alle pressanti richieste, che stavano diventando anche minacciose, una delle mie sorelle, forse preoccupata per la piega che stava assumendo la conversazione, porse a mamma la chiave della moto, dicendo di averla trovata in un cassetto del comodino della camera da letto dei nostri genitori.
A questo punto mia madre chiese garanzie sulla restituzione della moto al Segretario e, in modo particolare, al compare. Avuta l’assicurazione della restituzione, a breve, da parte di tutti, mia madre concesse, di mala voglia, l’uso della motocicletta.
Il giorno dopo, mia madre si recò in Municipio a raccontare l’accaduto al Podestà, grande amico e compare dei miei. Il Podestà era di Nurachi (altra frazione di Riola), il Cav. Pili, sottufficiale dell’Esercito in pensione, persona molto influente nel P.N.F. perché durante la prima guerra mondiale era stato il superiore diretto di Benito Mussolini (semplice caporale).
Era notorio che il Cav. Pili era stato nominato Podestà dal Prefetto di Cagliari su richiesta del Duce.
L’intervento del Podestà era stato fruttuoso, infatti, due giorni dopo la motocicletta si trovava nuovamente a casa, sistemata nel solito posto, al centro del corridoio. Non solo, ma i militi (componenti della Milizia-Polizia-fascista) portarono anche dolci e una lettera di ringraziamento firmata dal famoso comiziante e dal Federale (il più elevato di grado dei fascisti in ogni provincia) di Cagliari.
Io e l’amico Salvatore, che abitava a fianco di casa nostra, riprendemmo le corse simulate in motocicletta.

Racconto di Giuseppe Mocci 



martedì 28 giugno 2011

RICORDI D'INFANZIA: "Sa domu de Balloi Corrias" - di Giuseppe Mocci

Alla fine dell'anno scolastico 1936/37 iniziarono le vacanze estive ed io, per la prima volta, iniziai a frequentare i compagni di scuola miei coetanei che abitavano nel vicinato e che avevano frequentato con me la prima classe.
Fino all'età di sette anni sono stato sempre chiuso in casa, attaccato alle gonne di mia madre; qualche volta mi era permesso di andare a casa di Salvatore Bellu, che abitava a fianco della nostra casa, oppure veniva lui da me per giocare o per montare la motocicletta di mio padre (una Gilera 500), che stava spesso a cavalletto al centro del corridoio.
Io guidavo e lui si sedeva dietro sul sedile posteriore. Nel nostro immaginario si correva a cento chilometri all’ora; se io facevo il rumore del motore con la bocca, Salvatore suonava il clacson, e viceversa; allora finiva la nostra corsa per l’intervento severo di qualche mio familiare.
Come dicevo, nel mese di Luglio del 1937, hanno inizio le mie prime uscite, le più belle della mia infanzia, che terminarono, purtroppo, nel 1942, quando i miei mi mandarono a Oristano per frequentare il Ginnasio-Liceo.
Ricordo che nelle vicinanze della mia casa, in un raggio di settanta-ottanta metri, abitavano i miei amici: Salvatore Bellu; Salvatore Corrias (“Balloi”); Paolo Ponti; Salvatore Marongiu ("Biddoccu"); Giustino Meli e Benedetto Loche.
Sono stato in casa di tutti questi amici, ma la preferita era la grande casa di Balloi Corrias;  preferita anche dagli altri amici.
Ci piaceva troppo, perché disponeva di un vastissimo cortile, dove si potevano fare tanti giochi, singolarmente o a gruppi.  I giochi più praticati erano: le biglie, le trottole, il nascondino, “luna monte”.  
Ci appassionava molto la caccia alle lucertole e, soprattutto, ai passeri, con i lacci e il tira-elastico (su tirollàsticu).
Il campione di caccia era Balloi, il padrone di casa. Egli era una persona molto simpatica, generosa, sincera e sempre disponibile nei nostri confronti. Spesso litigava con Giustino (Zustĩu) per via delle sue infantili pretese di essere superiore a tutti. Quest’ultimo asseriva sempre di aver abbattuto uno o due passeri più di Balloi e quando gli chiedevamo di vedere le sue prede, rispondeva sempre: "Mamma le ha già cucinate!”.
La casa di Balloi era troppo interessante, oltre che per la sua ampiezza, anche per la sua struttura architettonica, tipicamente padronale, campidanese e antica.
Quando ero in terza elementare, con la maestra Palmas, l’avevo disegnata mettendo in risalto il suo grande focolare acceso con una pentola fumante.
Ricordo che la maestra apprezzò molto il mio disegno infantile e volle conoscere questa casa.
Ella portò la classe in casa di Balloi. Qui, dopo aver sentito alcune notizie storiche da Zia Elisabetta Orrù, la madre di Balloi, la maestra ci fece una lezione sull'abitazione dell’uomo, fin dalle origini.

Tzia Elisabetta Orrù

Da Zia Elisabetta apprendemmo che la casa era antica, costruita da suo nonno o dal bisnonno. Questa era la sua casa paterna, dove lei visse;  prima, con le sorelle Giovanna e Bellanna e, in seguito, col marito (Giuseppe Corrias), che sposò nel 1907, e con la sua numerosa famiglia.
Recentemente, leggendo il libro”Zenti Arrioresa” di C.A. Zoncu, credo di aver scoperto il costruttore di questa casa. Scorrendo l’albo genealogico risulta che:
- Elisabetta era figlia di Giovanni Orrù (1843/1913), il quale, a sua volta, era figlio di Angelo Orrù (1823/1883);
- Angelo Orrù era figlio di Vincente Orrù (1785/1863), notaio, figlio di Pedro  Orrù (1738/1804) che sposò l’ereditiera Barbara Meloni (1744/1814).
Poiché tutti i terreni di fronte alla chiesa di S. Anna, a Ovest e a Nord, erano allora di proprietà di Sisinnio Meloni (1707/1790), padre di Barbara, si può dedurre che sia stato lui il costruttore e il primo abitante de "sa Domu de Balloi".
Sisinnio Meloni era un ricchissimo proprietario terriero e grande allevatore; istruito e molto intraprendente, doti che i riolesi apprezzarono, tanto che lo elessero Alcalde (Sindaco) di Riola.
 A me pare di vederlo entrare in casa, in sella al suo cavallo, passare sopra il bellissimo selciato bianco, alla fine del quale scendere dal suo destriero, con l’aiuto di uno dei suoi numerosi servi.
Sisinnio Meloni ebbe tre figli: un maschio, Antonio (1747/1820), rimasto celibe, e due femmine: Barbara e Rosa  Meloni (sposò Domingo Zoncu), che ereditarono tutto il patrimonio del padre.
Barbara Meloni (1744/1814) sposò Pedro Orrù e diventerà, poi, l’ava di quasi tutti gli Orrù, mentre Rosa diventerà l’ava degli Zoncu.

abitazioni realizzate dove sorgeva la vecchia "Domu de Balloi Corrias"

"Sa Domu de Balloi" si trovava in via Umberto I, a fianco del Municipio vecchio, costruita con mattoni di terra e paglia (formato grande), a piano terra e di forma rettangolare. Si entrava da un portone molto alto direttamente in un ampio corridoio, al centro del quale c’era un selciato bianco per il passaggio del cavallo del padrone di casa. Ai due lati del corridoio c’erano quattro stanze a destra e due a sinistra. Alla fine del corridoio si passava, dritto, in un primo cortile, o si entrava, a destra, in una grande sala, dove c’era un focolare al centro (sa forredda), sempre acceso, e intorno ampi spazi per mangiare e/o riscaldarsi.
Sopra il focolare e tutto intorno c’erano appese al soffitto delle cannicciate ripiene di formaggi e di salumi vari.  La sala era sempre impregnata di fumo, ma si sentivano anche odori gradevoli.
Nel primo cortile c’erano: il pozzo dell’acqua, la casa del forno, la cantina, la lavanderia con annessa latrina e la stalla del cavallo. Tutto intorno fiori e un grande pergolato di uva rossa, Arrotza/u. 
Da questo cortile si accedeva, passando per un cancello in legno, ad un secondo cortile molto grande, dove c’era una catasta di legna e tre locali: uno per il ricovero dei carri, il secondo per la provvista della paglia (s’omu de sa palla) e il terzo, ormai mezzo diroccato, sede del frantoio (sa prentza). Tutto il resto ampio spazio libero, dove spesso sostavano le pecore.
Dal grande cortile si accedeva, attraverso un enorme portale in legno, ad un sentiero di campagna, che conduceva, a sinistra verso il fiume, a destra in via Garibaldi.
Lungo il sentiero che conduceva al fiume c’erano, ad entrambi i lati, mandorleti; nostro campo di caccia ai passeri.  
Oggi “sa Domu de Balloi" non esiste più; è stata demolita, forse, negli anni 1948/50 e la superficie è stata divisa tra gli eredi ORRU’/CORRIAS, che vi hanno costruito cinque case, due in via Umberto I e tre in via Garibaldi.
Di fronte a questa casa e sempre sulla via Umberto I, c’era anche "sa domu de Zustĩu", l’amico e compagno di giochi, colui che contendeva il primato della caccia dei passeri a Balloi.
Questa casa, costruita su un piano rialzato rispetto al piano stradale, con una bella gradinata, aveva anche un piano superiore (su sòsturu) su un lato e il cortile, stranamente, rimaneva di fianco, dove si poteva accedere dalla cucina o dalla strada attraverso un bel portale in legno.
Essa appariva una casa normale qualunque, ma in seguito ad un’eccezionale scoperta del 1938 si capì che anche questa casa era antica e che aveva una storia.
Infatti, originariamente, essa faceva parte di un’unica grande casa padronale di un ricco possidente, che comprendeva anche i tre locali attigui, sul retro.
Questa tesi è avvalorata dalla scoperta (1938) di un piccolo tesoro in monete d’oro (marenghi), nascosto dentro un palo (ũa biga) abbattuto durante i lavori di rifacimento del tetto di uno dei predetti locali.
Non solo, ma che il proprietario fosse ricco lo dimostra anche il fatto che la casa era stata costruita su un piano rialzato con gradinata, come si usava dai ricchi fino a tutto il 1800, per meglio proteggersi dalle Bardane (squadre di delinquenti, armati di tutto punto, provenienti dalle zone interne della Sardegna per razziare bestiame e/o depredare - (is)sarrobai -  i ricchi possidenti del Campidano e che usavano un grosso palo di legno, tipo ariete, spinto da un giogo di buoi, per sfondare le porte). Le gradinate e il dislivello col piano stradale, infatti, vanificavano l’opera demolitoria dei predetti delinquenti.
Fatte queste premesse, accertato che il terreno su cui è stata costruita anche l’antica casa di Giustino era di proprietà di Sisinnio Meloni, constatato che il materiale usato per la sua costruzione era identico a quello usato per la costruzione de "sa Domu de Balloi", ritengo che essa potesse appartenere, ugualmente, ad un Meloni, forse ad Antonio o a una delle sorelle.
A Riola esisteva, nello stesso periodo, un’altra casa costruita ugualmente su un piano rialzato, con la gradinata e a piano superiore, in via Umberto I, vicinissima alla chiesa e a poca distanza da quelle di Zustiu e di Balloi.
Anche questa casa, che io ho frequentato, era stata costruita con grossi mattoni di terra e paglia e sullo stesso terreno di proprietà dei famosi Meloni.
Ritengo che anche quest’altra casa sia stata costruita e abitata da Rosa Meloni, sposata con Domingo Zoncu, anche perché, fino agli anni ’60 del secolo scorso, vi abitavano le sorelle Zoncu-Orrù.
Tutte le altre case che si trovano in via Umberto I, dalla chiesa verso il fiume, sono state costruite nei primi anni del '900, fatta eccezione della casa Corda, di recente costruzione e attaccata alla casa delle sorelle Zoncu.

via Umberto I in una foto degli anni '60

Altra nota importante e che conferma le mie tesi, è costituita dal fatto che la casa Corda è stata costruita dove prima c’era un vecchissimo frantoio di proprietà degli Orrù, discendenti dalle famose famiglie Meloni-Orrù-Zoncu.
Ricordo che i meccanismi del vecchio frantoio erano tutti in legno e che non si trovavano, allora, i pezzi di ricambio. Quindi, quando qualche meccanismo si guastava, erano guai; occorreva ricorrere all’opera di un bravo falegname. 
Ricordo ancora che Antonio Orrù, mio amico, mi parlava con orgoglio di questo vecchio frantoio, che spesso lo faceva arrabbiare, e affermava che il medesimo e l’annesso cortile facevano parte di un’unica casa, costruita e abitata dai suoi avi: gli Orrù-Zoncu.  Antonio si riferiva, naturalmente, a quella, allora, abitata dalle sorelle Zoncu-Orrù.

Testo di Giuseppe Mocci