giovedì 30 agosto 2012

"I RIOLESI E LA VILLEGGIATURA AL MARE" di Giuseppe Mocci

Nel secolo scorso, i Riolesi andavano in villeggiatura (modesta ma festante) al mare; sempre dopo la Festa di Sant’Anna, che cade il ventisei di Luglio.
Agli inizi del ‘900, fino agli anni venti, la maggioranza andava a Su Pallosu, Comune di San Vero Milis; una piccola minoranza, invece, preferiva San Giovanni di Sinis, Comune di Cabras. Questa minoranza faceva capo al famoso Cav. Giuseppe Zoncu, riolese, che vi costruì anche una comoda casa, di fronte alla Chiesa paleocristiana e in mezzo alle case dei nurachesi.

Foto d'epoca: San Giovanni di Sinis - anni '20

Gli altri riolesi si accampavano in capanne di frasche, che realizzavano (a schiera) di fianco alle case dei nurachesi, in direzione di Cabras. Così usavano fare anche i pochi cabraresi e i nurachesi che non possedevano casa a San Giovanni.
Di questa località marina, io ho molti bei ricordi. Nell’estate del 1939, la mia famiglia passò la villeggiatura nella casa di una persona di Nurachi.
Fra i tanti ricordi, uno non lo dimenticherò mai: il bagno delle donne. Esse, soprattutto le riolesi, le nurachese e le cabraresi, usavano appartarsi in una spiaggia isolata, situata lungo la pista che porta a Capo Seu, chiamata Sala ‘e Bàllusu" (era una vecchia cava di arenaria)
Le medesime donne, quasi tutte ultra quarantenni, come mia madre, vestivano un costume strano e singolare: una lunga gonna nera.
 La spiaggia, per quanto isolata, veniva sorvegliata a turno da un familiare. Un giorno, toccò a me fare la guardia; avevo nove anni ed ero un po’ timido e timoroso. Allora feci venire con me un amico e coetaneo, un certo Antonio Caria.
Quel giorno non passò nessuno, ma io e l’amico ci siamo divertiti tanto nel vedere le parti intime di quelle donne. Il costume (la gonna), infatti, non essendo bloccato alle gambe o alle cosce, si sollevava e lasciava scoperto gran parte del corpo; molte donne non avevano le mutande.
La villeggiatura a San Giovanni finiva dopo la Festa di San Salvatore, che si svolgeva nell’omonimo villaggio, a pochi chilometri di distanza, nella prima domenica di Settembre.

Foto d'epoca: Riolesi a Su Pallosu

I numerosi riolesi che villeggiavano a Su Pallosu costruivano le capanne di frasche ed erbe palustri lungo la spiaggia, dal fabbricato della vecchia tonnara, a nord-ovest, fino a un gruppo di case, dette dei Sanveresi, a Sud-est.
Le capanne sfioravano la riva e, certi anni, venivano costruite su due fila. Ogni capanna aveva un gabinetto a pozzo morto e un piccolo recinto per le galline e i polli novelli:is cabõìscusu. Non solo, ma ogni famiglia disponeva anche di una botte per l’acqua potabile; per gli altri usi, si usava l’acqua del mare (lo spettacolo non era sempre dei migliori!).
Molti riolesi, soprattutto quelli che soffrivano di disturbi respiratori, ed erano molti, andavano di preferenza a Su Pallosu, anche su consiglio del medico. Questi malati si recavano in cima a un’alta duna di sabbia pulitissima, che si trovava dietro il fabbricato della vecchia tonnara. Oggi su quella duna, spianata, sorgono le villette di Iosto Puddu e del cognato Salvatore Pisanu, di San Vero Milis.
Con la costruzione della strada provinciale Riola-Cuglieri, molti riolesi abbandonarono la spiaggia di Su Pallosu e preferirono la spiaggia di Is Arenas (nota ai riolesi come Sa Praia Manna), facilmente raggiungibile in un’oretta di carretta.
Nel dopoguerra, i riolesi lasciarono anche questa spiaggia e, in gran parte, si spostarono a S’Archittu, circa un chilometro più avanti, in territorio di Cuglieri.
Questo avvenne nel 1944, quando tutte le spiagge del Sinis erano ancora minate, perché, fino all’anno precedente, la Sardegna era ancora in guerra e si temeva uno sbarco degli Anglo-americani proprio su quelle spiagge.
Da allora e per una ventina di anni, i Riolesi preferirono villeggiare a S‘Archittu, dove costruirono le famose capanne lungo la spiaggia, a pochi metri dalla riva.
Era uno spettacolo meraviglioso e si protraeva, per alcune famiglie (come per la mia), fino ai primi di Settembre. Sopra la spiaggia, su un campo pianeggiante, ad un’altezza di cinque-sei metri, si accampavano invece i narboliesi, i seneghesi e gli scanesi. Questi montanari erano paurosi, non abituati come noi riolesi a vivere vicino all’acqua (il fiume e lo stagno di Mar ‘e Foghe).
Le nostre capanne, simili a quelle che si costruivano prima a Su Pallosu, distavano dalla riva pochi metri; anche lo scenario era identico.
L’acqua potabile veniva portata da una vicina sorgente,Sa mitza de sa canna, che dava e dà ancora origine al torrentello che passa tuttora sotto il ponte, prima di arrivare a S’Archittu.
L’acqua era purissima e molto fresca, però era poca e bisognava attendere molto, dato il numero eccessivo degli assetati.

Spiaggia di S'Archittu

Nel 1947, i riolesi in villeggiatura si rifornivano d’acqua potabile a Santa Caterina (un po’ più lontana della predetta sorgente).
In questa località, sul mare e in territorio di Cuglieri, c’era infatti una grande sorgente con acqua abbondante, fresca e purissima, situata a circa cento metri dalla riva del mare, vicino alla caserma della Guardia di Finanza.
A Santa Caterina, allora, c’erano poche case costruite lungo la strada; un’altra casetta era di fianco alla caserma, mentre più avanti, sulla strada per Cuglieri, c’era la bellissima Cantoniera (fino a Cuglieri, poi, non c’erano altre costruzioni). Un’altra decina di piccole abitazioni erano sparse intorno alla chiesetta di Santa Caterina, ed erano abitate durante le novene della Santa; raramente, queste erano utilizzate d’estate. I cuglieritani, autentici montanari, allora, non frequentavano il mare; essi preferivano Su monte ‘e s’ozu.
Del rifornimento dell’acqua a Santa Caterina, ho anche un ricordo non molto bello. Trattasi dell’ultimo viaggio, fatto come sempre in barca, in compagnia dell’amico Efisio Enna e di un altro amico nostro coetaneo, figlio di un pescatore bosano che operava a S’Archittu.
Questo pescatore aveva una grande barca a vela e  una barca a remi, che spesso ci prestava per portare l’acqua da Santa Caterina. Il capo barca era suo figlio, nostro amico.
Una sera, intorno alle sei, caricate sulla barca le damigiane della mia famiglia e di quella di Efisio, partimmo per la nostra bella missione. La barca (tipo lancia, lunga circa cinque metri) aveva due ordini di remi; l’amico bosano era fisso ai suoi remi, mentre io ed Efisio ci alternavamo agli altri.
In mezz’ora, con un mare piatto e in assenza di vento, arrivammo a destinazione. Riempite le damigiane e caricatele sulla barca, marinai provetti, ripartimmo con slancio per il rientro a S’Archittu.
La barca si trovava già fuori dal golfo e noi ci accingevamo a virare a Sud, quando, prima del tramonto, improvvisamente scoppiò un temporale; si fece buio pesto e cadde tanta acqua.
Efisio ed io, spaventati, cercammo di convincere l’amico capobarca a rientrare a Santa Caterina; ma questi, già esperto marinaio, ci convinse a proseguire, dicendoci che il temporale sarebbe cessato subito, come spesso accade d’estate.
A un certo punto, poiché la barca iniziava a imbarcare acqua, l’amico ci mise in mano dei barattoli vuoti e ci invitò a svuotare lo scafo, mentre lui remava con forza verso il largo per paura che fossimo spinti contro la costa rocciosa. Fortuna volle che incominciasse a lampeggiare, cosicché la costa fu rischiarata per un attimo e ci permise di indirizzare la prua verso S’Archittu.

Scogliere tra Santa Caterina e S'Archittu - mare in burrasca

La barca, tuttavia, imbarcava sempre più acqua, per cui io ed Efisio proponemmo di alleggerirla gettando le damigiane in mare.
Il nostro comandante, fermo e deciso, ci impose il silenzio, apostrofandoci pesantemente e invitandoci a continuare lo svuotamento dell'acqua dallo scafo. Obbedimmo, mentre egli cercava di individuare le due isolette che si trovano un po’ prima della spiaggia di S’Archittu. Non si vedeva nulla e bisognava remare verso il largo e attendere un lampo per vedere la costa.
Intanto, erano passate almeno tre ore e i nostri familiari, allarmati per il nostro ritardo, si recarono a Santa Caterina dove appresero che noi eravamo partiti da diverse ore. Essi, allora, rientrarono a S’Archittu lungo la costa alta e rocciosa, con la speranza di vedere la barca. Tutto inutile; il buio non permetteva di vedere oltre i cinquanta metri.
A S’Archittu i nostri familiari e gli amici erano atterriti, convinti del nostro naufragio. Noi (come ci raccontarono dopo) ci trovavamo oltre le due isolette, di fronte alla spiaggia, quando un altro lampo illuminò la zona. Ci fu un grande urlo da parte nostra e un forte richiamo, misto a pianto, dei nostri familiari. L’amico bosano drizzò la prua verso la spiaggia, dove finalmente arrivammo in pochi minuti, sani e salvi.

Testo di Giuseppe Mocci 



martedì 28 agosto 2012

RIOLA SARDO - 31° MOTORADUNO INTERNAZIONALE DELLA VERNACCIA (2012)

Prende il via, venerdi 31 Agosto, il trentunesimo MOTORADUNO INTERNAZIONALE DELLA VERNACCIA, organizzato dal MOTO KART CLUB di Riola; una tre giorni ricca di appuntamenti ed eventi per gli appassionati della moto.  Questo è  il calendario della manifestazione:


Locandina-calendario del Motoraduno 

VENERDI 31 AGOSTO

ore 16,00  Apertura iscrizioni in Riola Sardo (Giardini Pubblici)
ore 17,00  Partenza per un giro turistico
ore 19,00  Chiusura iscrizioni
ore 20,00  Rientro a Riola Sardo e cena tipica sul luogo delle iscrizioni
ore 22,00  Spettacolo di Freestyle Motocross sul campo di calcio
  

SABATO 1 SETTEMBRE

ore 10,30  Apertura iscrizioni in Riola Sardo (Giardini Pubblici)
ore 11,30  Chiusura iscrizioni e partenza per un giro turistico
ore 13,30  Sosta con svolgimento del prenzo presso il ristorante “Il Galeone” loc. Bosa Marina
ore 15,00  Proseguo iscrizioni;
ore 17,00  Rientro a Riola Sardo
ore 19,00  Chiusura iscrizioni
ore 20,00  Cena tipica sul luogo delle iscrizioni
ore 22,00  Serata di intrattenimento con gara di Ballo Sardo
ore 23,00  Spettacolo di Freestyle Motocross sul campo di calcio
ore 24,00  Ripresa della gara di Ballo Sardo

Giro Turistico: Riola Sardo, Narbolia, Seneghe, Bonarcado, Santulussurgiu, San Leonardo, Scano Montiferro, Sennariolo, Tresnuraghes, Flussio, Tinnura, Suni, Bosa, Magomadas, Tresnuraghes, Sennariolo, Cuglieri, Santa Caterina, S’Archittu, Torre del Pozzo, Riola Sardo.


DOMENICA 2 SETTEMBRE

ore 09,00  Apertura iscrizioni in Riola Sardo Giaridini Pubblici
ore 11,00  Spettacolo di Freestyle Motocross sul campo di calcio
ore 12,00  Chiusura iscrizioni e partenza per un giro turistico;
ore 13,30   Rientro a Riola Sardo e pranzo tipico sul luogo delle iscrizioni;
ore 16,00   Premiazioni
ore 17,00   Spettacolo di Freestyle Motocross nel campo di calcio
ore 18,00   Saluto dei partecipanti; estrazione biglietti vincenti sottoscrizione a premi

Giro Turistico: Riola Sardo, Narbolia, Seneghe, Bonarcado, Milis, San Vero Milis, Zeddiani, Baratili S. Pietro, Riola Sardo.


giovedì 23 agosto 2012

“IL CACCIA FRANCESE E IL CAMPO DI AVIAZIONE DI MILIS” di Giuseppe Mocci

Nel 1935 la Società delle Nazioni (oggi ONU), influenzata dalla Gran Bretagna e dalla Francia, deliberò (con il voto favorevole di cinquantuno nazioni su cinquantaquattro) severissime sanzioni contro l’Italia, perché aveva occupato l’Etiopia. 
L’Italia fascista rimase isolata per un paio d’anni, contrastata soprattutto dalla Francia e dalla Gran Bretagna. Il Re d’Italia, Vittorio Emanuele III, divenne prima Imperatore d’Etiopia e, nel 1939, dopo l’annessione dell’Albania, Re d’Italia e d’Albania.
Benito Mussolini, Presidente del Consiglio dei Ministri, era, allora, al massimo del suo successo e noi italiani eravamo diventati quasi tutti fascisti. 
Io, allora, ero un balilla e ricordo che vestivo la divisa, quando in paese il Pnf (Partito Nazionale Fascista) organizzava sfilate e adunate. A scuola ci insegnavano l’Etica Fascista, ma noi alunni non capivamo niente di questa materia. Ci piaceva, però, partecipare alle sfilate. 

Caccia Francese della seconda guerra mondiale

Nel 1938, anno XVIII dell’era Fascista, a Riola accadde un fatto strano e, per noi ragazzi, meraviglioso. Un piccolo aereo militare francese, lungo otto-dieci metri, fece un atterraggio di fortuna nelle campagne, vicino al paese; lungo la strada provinciale Riola-Cuglieri, dopo la discesa di Tradori, secondo i bene informati. 
L’aeroplano (un caccia, monoposto, armato di mitragliatrice) e il pilota furono presi in consegna dai carabinieri della Stazione di Riola. Il giorno dopo arrivarono tanti militi (la polizia fascista) e militari dell’Aeronautica. 
Il velivolo, che si trovava parcheggiato su una piazzuola della strada provinciale, fu disarmato e privato delle ali; un autocarro dell’aeronautica lo rimorchiò fino a Riola, dove fu sistemato nella piazzetta attigua alla chiesa.
Rimase in paese un paio di giorni, e l’avvenimento interessò le autorità che pensarono ad un aereo-spia, perché allora erano iniziati i lavori per la costruzione del Campo di Aviazione di Milis.
L’aereo, poi, fu trasportato a Cagliari e il pilota venne sottoposto a lunghi interrogatori da parte della Milizia. Non si seppe mai se fu incarcerato o rimesso in libertà. 
Nel 1939 l’Italia fascista si preparava a far la guerra alla Francia e alla Gran Bretagna. A Milis, i lavori per la costruzione del Campo d’aviazione furono accelerati. 
Ricordo che il Podestà e il segretario del Partito, in paese, si adoperarono al massimo per convincere gli agricoltori a fornire gramigna (su trèmini) all’impresa che stava costruendo il Campo.
Quest’erba infestante cresceva molto rigogliosa nelle nostre campagne e poi era pagata bene. In quell’anno, tanti riolesi hanno lavorato per la fornitura della gramigna, che veniva messa a dimora sul predetto Campo di volo. 

Attacco del campo di Milis da parte degli americani (Luglio '43)

Nel 1940, prima dello scoppio della guerra, il Partito Fascista organizzò una gita al Campo di Milis; ci andai anch’io, balilla. Ricordo che ci accompagnò, con diverse carrette, l’ufficiale della Milizia, l’insegnate Virgilio Brau, in grande uniforme. 
Al Campo di Milis vedemmo i nostri aerei, che ci parvero migliori e più grandi del caccia francese atterrato l’anno prima a Riola.
Poveri noi! Perdemmo la guerra. 
Io, che vidi nascere il Campo di Milis, ebbi anche l’occasione di vedere, nel 1943, la sua distruzione da parte dell’aviazione americana.

Testo di Giuseppe Mocci - Tutti i diritti riservati

Editing G.Linzas

venerdì 17 agosto 2012

"LA VILLA LORIGA" di Giuseppe Mocci

Nell’estate del 1944 mi trovavo a S’Archittu, con la mia famiglia, per la villeggiatura estiva, accampato lungo la bella spiaggia.
Con un amico e coetaneo, Efisio Enna, anche lui villeggiante a S’Archittu, eravamo sempre in giro in cerca di avventura, dediti all'esplorazione delle zone circostanti e delle altre spiagge di Torre del Pozzo e di Is Arenas.
Molte volte siamo saliti sulla vecchia e cadente Torre, nella quale era facile salire, ma difficilissimo scendere. Insieme scoprimmo la vecchia strada romana Cornus-Tharros, fatta di lastre di arenaria e basalto, che terminava giù, a sinistra della strada provinciale Riola-Cuglieri, a una distanza di circa centocinquanta metri.
Ciò che rimane dell’antica strada, che attraversava tutta la zona di Is Arenas fino ad arrivare a Tharros, si può vedere ancora oggi.

Foto d'epoca: spiaggia di S'Archittu, anni '40 (*)

Ricordo che, un giorno, al rientro nel nostro accampamento a S’Archittu, prendemmo una stradina di campagna (sulla destra della strada provinciale), che, salendo, conduceva a una villa costruita su un promontorio. Era l’unica costruzione esistente in quella zona deserta e costituiva un belvedere.
La nostra curiosità ci portò a scavalcare il basso muro di cinta; la casa, però, era chiusa e potemmo vedere solo il cortile. Si chiamava Villa Lorigaed era di proprietà di un notaio (il cui cognome era, per l’appunto, Loriga).
Allora ci era sembrata abbandonata; scoprimmo invece che la casa era stata occupata abusivamente subito dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 da marinai sbandati. Erano in prevalenza sottufficiali provenienti dalla penisola (occupata dai Tedeschi al centro-nord e dagli Anglo-americani al centro-sud)
Con l’anarchia di quei due anni, questi marinai - quattro o cinque unità - si erano stabiliti nella Villa Loriga, dove tornavano la sera per dormire e smontare le mine che recuperavano in  giornata, nel Sinis o lungo la costa.
Essi smontavano le mine per ricavarne il potente esplosivo che vendevano ai numerosi pescatori bombaroli. Erano parecchi, allora, i pescatori che utilizzavano questo sistema di pesca; quasi tutti militari appena congedati.
Ricordo che spesso, quando noi ragazzi facevamo il bagno sotto l’Arco, questi pescatori improvvisati ci mandavano via per lanciare le bombe nell’acqua, dov’era presente una gran quantità di pesci.
Le bombe, generalmente, erano dei barattoli di latta ripieni di dinamite, che i pescatori chiamavano bòttusu.
 Ricordo anche che una volta, un riolese (anch'egli appena congedato) lanciò sotto il medesimo Arco una bomba a mano che fece una gran strage di pesci; poi, invitò tutti i bagnanti a raccoglierli. Io riuscii a raccoglierne una dozzina.

 arco di S'Archittu

L'episodio più importante, che ancora oggi ricordo come fosse ieri,  capitò alla fine di settembre del 1944.
Un giorno, intorno alle dieci di mattina, con l’amico Efisio eravamo intenti a raccogliere bocconi (murici) e patelle sulla spiaggia sottostante la Villa Loriga, all’altezza della grotta dei piccioni, quando, improvvisamente, sentimmo una grande deflagrazione.
Sollevati gli occhi al cielo, vedemmo un’enorme nube di polvere mista a fumo, con tante pietre che cadevano dall'alto a pochi metri da noi.
Era successo che i marinai smontando una grossa mina, involontariamente, l’avevano fatta esplodere. Morirono tutti i marinai e, pare, anche numerosi clienti. 
La villa fu rasa al suolo dall’esplosione; non si trovo più nulla, rimase soltanto un piazzale pulito con un grosso cratere al centro. Efisio ed io siamo stati forse gli unici ad aver visto tanto scempio.
Scomparve in questo modo la famosa “Villa Loriga”, costruita all’inizio del secolo scorso (la prima in quella zona) subito dopo la realizzazione della strada provinciale Riola-Cuglieri.

Spiaggia di Is Arenas

Con la costruzione di questa nuova strada vi fu un cambiamento nelle abitudini di buona parte dei riolesi, i quali scelsero una nuova spiaggia per la villeggiatura estiva.
Essi, infatti, iniziarono a frequentare la spiaggia di Is Arenas, lato Torre del Pozzo, perché percorribile con un’oretta di carretta, contro le tre ore necessarie per arrivare a Su Pallosu, raggiungibile attraverso piste incerte e dissestate.
Ricordo che nel 1939-40 la spiaggia di Is Arenas-Torre del Pozzo era spesso frequentata da un gruppo di giovanotti, in bicicletta. Di questi, ricordo Ottavio Sanna, che, con i suoi coetanei, faceva una gara di velocità per rientrare in paese; egli arrivava a Riola sempre primo.
La spiaggia di Is Arenas, però, era pericolosa per il falso fondale e le improvvise onde anomale. Per questo motivo, ogni anno, morivano annegati due o tre bagnanti.
Nel corso degli anni, piano piano, i riolesi abbandonarono questa spiaggia e, alcuni, tornarono a Su Pallosu, altri, invece, scoprirono la spiaggia di S’Archittu.
Con la costruzione della nuova strada fu costruito anche un nuovo ponte su Mar'e Foghe e abbattuto il vecchio ponte romano, fino ad allora aperto al traffico.

(*) Foto d'epoca di S'Archittu tratta dalla pagina facebook "Come eravamo" - foto V.Cubeddu 

Testo di Giuseppe Mocci - Tutti i diritti riservati

Editing G.Linzas

sabato 11 agosto 2012

“I RIOLESI E LA VERNACCIA” di Benedetto Sulas

grappoli di uva Vernaccia

Nell’opera La Sardegna paese per paese, scritta dall’Angius e curata dal Casalis, si parla anche di Riola, com’era a metà dell’Ottocento. 
Dopo aver descritto la posizione geografica, il clima (malsano), e il territorio, l’autore lamenta la mancanza di fonti di acqua potabile in territorio di Riola e dice testualmente:
… e gli abitanti devon bevere, quando viene agli uomini la rara voglia di bevere acqua da un pozzo, detto di S. Quirico, perché prossimo all’antica, oggidì rovinata, chiesa di S. Quirico”. 
L’Angius dice “quando viene agli uomini la rara voglia di bevere acqua”. Se ne deduce che di questo liquido ne bevevano poco.
Se continuiamo a leggere, l’autore dice:
Il vigneto è assai vasto… la vendemmia copiosa e il mosto buono. La vernaccia è il vino che bevesi comunemente e in abbondanza. È un supplemento dell’acqua”. 
Quindi si beveva più vernaccia che acqua; questo dice l’Angius. Tuttavia anche se grandi bevitori “i Riolesi sono gente laboriosa e tranquilla, ma poco industriosi”, continua lo scrittore. 
Sicuramente la vernaccia era buona. Probabilmente però, lo era anche il vino nero (rosso), se un altro autore, però dei nostri giorni, Sergio Atzeni, precocemente scomparso, nel suo libro intriso di poesia “Passavamo sulla terra leggeri”, parla di vino rosso di Riola di ottanta e di cent’anni. 


Tratto dal libro “Brevi cenni sul dialetto di Riola (e di Baratili)” di Benedetto Sulas - Edizione “S’Alvure” 2008 - Tutti i diritti riservati. 



mercoledì 8 agosto 2012

UNA LEGGENDA RIOLESE: “SA SANNORA DE S’ONNIGARZA”

S’Onnigarza” è una località nelle vicinanze di Riola, situata a nord-ovest del paese, lungo la Strada Riola-Cuccuru Mannu.
Qui, durante il periodo giudicale, esisteva un castello del quale ancora nell’'800 (secondo quanto scritto dall’Angius nel Dizionario del Casalis) erano visibili le rovine di una torre; mentre, fino a non molti anni fa, si scorgeva un ampio fossato e un tratto di muro in conci di arenaria affioranti sul terreno agricolo.
Il “castello" era ubicato sopra una lieve altura, circondato da una rete di canali sfocianti a Mar’e Foghe e dotato di un ponte per attraversare il fossato.
La leggenda vuole che il castello fosse abitato da una castellana bella e ricchissima, Sa Sannora de S’Onnigarza, che usciva soltanto in occasione delle più solenni festività per recarsi a sentire messa nella chiesa parrocchiale di Riola o nella chiesetta di San Quirico, allora esistente.
Nella fantasia popolare questa donna era assurta a simbolo di potere, ancora feudale, e a espressione di bellezza e di superbia.
Le mani della dama furono celebri, tant’è che quando si voleva ironizzare sulle povere mani martoriate dal lavoro delle contadine Riolesi, si usava dire: No pòttada i màũsu de sa Sannora de S’Onnigarza!.
Si narra che Sa Sannoragiungesse dal castello al paese sulla sua barca, in compagnia di damigelle, con codazzo di valletti, rematori e armigeri, nelle sue vesti sontuose, carica di gioielli, forse in costume, ma con sfarzo di sete, di broccati, di tulle, di ricami.
Dal fossato del castello, la barca s'inoltrava nelle paludi e nel canale di Mar’e Foghe, e navigando nel rio raggiungeva le sponde dell’antica Chiesa di Santa Corona.

Chiesa medievale di Santa Corona vista dal fiume

La dama era tanto bella, ma tanto delicata e altera che pare sia morta per una goccia di rugiada.
Forse una notte d’estate la bellissima castellana avrà schiuso la finestra della sua stanza, avrà respirato l’aria della palude mista al lieve sentore di mare che proveniva attraverso le dune dalle coste del Sinis, e una goccia di rugiada, pianto della notte senza stelle, sarà caduta sulla candida pelle della Signora, uccidendola.
Ancora oggi, un antico modo di dire riolese fa riferimento a questa leggenda e alla delicatezza della castellana:
Za sesi pagu delicada... 
no ast’essi mancu sa Sannora de S’Onnigarza, ca esti motta po ũ ‘stìddiu de arrosada!

Nota:
Il toponimo “S’Onnigarza” deriva dalla trasformazione dell’antico toponimo “Donnigala”, nome che in epoca giudicale si dava a quei casali che appartenevano al patrimonio del donno, cioè del re o Giudice.

Fonti utilizzate
“Riola Sardo Villa Giudicale” di Giuseppe Pau e Raimondo Zucca; 
Sito internet del Comune di Riola Sardo.

Post a cura di Gilberto Linzas 

martedì 7 agosto 2012

"L'INNAMORATO" di Giuseppe Mocci

Tra i sedici e i vent’anni un giovane, di entrambi i sessi, può essere veramente innamorato? A mio parere, la risposta è: sì, pochissimi; no, la maggioranza. Io, naturalmente, mi riferisco a sessant’anni fa, quando anch’io ero un giovanotto ed abitavo ad Oristano.
Allora, quasi tutti i giovani maschietti, come le farfalle o le api, si posavano di fiore in fiore; cioè corteggiavano le belle coetanee, ma non soltanto una: tutte. Anche le giovani donne osavano un cauto corteggiamento del “bello” del reame: cioè della stessa classe scolastica, della via Dritta, del quartiere o del proprio paese.

Cartolina d'epoca: Oristano, via Dritta (Corso Umberto I)

I corteggiamenti finivano, di solito, in una sorta d’innamoramento, un invaghimento di breve durata. Questo era “fare l’amore”, "pivellare". La coppia innamorata s’incontrava spesso in via Dritta, quando la ragazza era molto timida, oppure in vie poco frequentate; al massimo si andava a San Martino, nei giardinetti, per le effusioni più “hard”. A Riola la cosa era molto complicata.
Allora, quasi mai si faceva sesso, perché per la maggioranza delle ragazze era un tabù difficilissimo da superare; forse anche perché allora non c’erano i contraccettivi. I ragazzi, invece, facevano sesso a pagamento nella “casa chiusa” di via Gallo o in qualche casa di appuntamento.
Comunque, qualche vero innamoramento accadeva anche allora. Ricordo di un giovanotto che si era innamorato follemente di una sedicenne, mia compagna di classe in terza media. Il ragazzo non la mollava mai; la accompagnava a scuola, all’ingresso, e la riprendeva all’uscita, tutti i giorni. La domenica la accompagnava in chiesa. I due erano sempre in giro a braccetto, e pare che nessuno li abbia mai visti scambiarsi pubblicamente un bacio. Il motivo fu chiarito dai bene informati; gli innamorati si trovavano anche in casa dei rispettivi genitori, a giorni alternati, quindi non c’era motivo di baciarsi in pubblico. Il giovanotto, dopo un annetto di fidanzamento, trovò lavoro e subito dopo portò sull’altare la sua fidanzata. Naturalmente, la maggioranza dei giovanotti "pivellatori" lo giudicarono un "pollastro".
Fare l’amore, allora, significava “pivellare”, corteggiare; non voleva dire fare sesso. Oggi, invece, fare l’amore ha principalmente questo significato. Al riguardo cito alcuni episodi capitati di recente a Oristano di sesso sfrenato e fatto, “coram populo”, in piazza (episodi di piazza Roma e piazza Eleonora). Il cronista Antonio Masala, nell’Unione Sarda del 26 e 27 luglio scorso, racconta di detti episodi e conclude definendo Oristano: “città godereccia…, di città del sesso sfrenato, delle notti hard più spinte”.
La definizione del Masala non deve meravigliare più di tanto, se non per il fatto che certi comportamenti si sono verificati in pubbliche vie o piazze. Anche ai miei tempi Oristano godeva della stessa fama, ma il sesso si praticava lontano dagli occhi dei cittadini, in vicoli e viuzze non praticate, in campagna e, soprattutto, nelle numerose case di appuntamento. Per i meno intraprendenti c’era poi il casino in via Gallo, estrema periferia della città. Nelle case di appuntamento si prostituivano ragazze e signore provenienti dai paesi vicini, Riola compresa.
Io ho avuto occasione di conoscere, durante la frequenza della Scuola Allievi Ufficiali, un altro “pollastro”; un collega, innamoratissimo della sua ragazza, che abitava in Sardegna, in un paese del cagliaritano. Caso, questo, rarissimo, da considerare innamoramento vero e casto per un giovane ventenne. Questi scriveva alla fidanzata due lettere al giorno; una di mattina e l’altra di sera. Non usciva mai in libera uscita; ricordo che egli mi accompagnava tutte le sere, fino alla porta della Caserma. Al mio rientro, chiedeva a me e agli altri colleghi di raccontargli le nostre avventure romane.
Era un’ottima persona, gentilissimo e ligio ai doveri di un allievo ufficiale. Alle adunate arrivava sempre per primo e collaborava in tutti i sensi con i superiori.
Ricordo che una volta mi rimproverò bonariamente perché non percorrevo interamente il percorso del campo da tremila metri piani. Succedeva infatti che, due volte la settimana, dopo due ore di ginnastica in palestra o sul campo sportivo, il nostro istruttore, un capitano dei bersaglieri, ci faceva percorrere i tremila metri prima del rientro in camerata. Io e un collega romano, appena percorsi duecento metri, ci buttavamo a sinistra, tra l'erba, e strisciando raggiungevamo la pista del ritorno; in pratica percorrevamo quattro-cinquecento metri dell'intero percorso.
Onde evitare commenti sul suo comportamento, un giorno, mentre mi accompagnava alla porta della caserma,  mi disse: “Giuseppe, io voglio far carriera militare e, per questo, io studio molto, mi applico con impegno; non esco in libera uscita perché sono fidanzato e non voglio correre il rischio di tradire la mia ragazza. Sai, io le scrivo tutti i giorni, una lettera di mattina e un'altra di sera.”. Non so come, sentì questo discorso un collega cagliaritano, il quale gridò stupefatto: "Pitticheddu su cagalloni! O Mocci, fullianceddu a mari. Oi puru nosus andaus "al Piper"". Questo era un famoso locale notturno dove si andava per conoscere ragazze. L'intrusione volgare del collega cagliaritano m'irritò alquanto. Comunque col collega innamorato, il simpatico "pollastro", rimanemmo amici.
Egli, promosso ufficiale, si raffermò e subito dopo portò sull’altare la sua amatissima fidanzata. I due ebbero cinque figli e vissero felici e in armonia. Il nostro ufficiale fece poi una carriera bellissima, raggiungendo il grado di Generale di Divisione.
Quando comandava un grosso e importante reparto in Sardegna, per lungo tempo, il nostro ufficiale m’invitava spesso alle varie cerimonie che si tenevano in Caserma. Ci siamo scambiate visite familiari, per tanti anni.
Ora egli è vedovo, un po’ triste e sconsolato. Da ottuagenari ci sentiamo al telefono spesso e ci consoliamo reciprocamente.                        

Testo di Giuseppe Mocci - tutti i diritti riservati.
Editing G.Linzas