giovedì 29 dicembre 2011

Avvenimenti: pubblicato “Su Tzravàlliu Arrioresu 2012”


copertina del calendario "Su Tzravàlliu Arrioresu"

E’ stato pubblicato recentemente il primo calendario in dialetto riolese, “Su Tzravàlliu Arrioresu 2012”, realizzato da Benedetto Sulas e Roberto Demontis.
Il nome richiama il famoso almanacco fatto stampare per la prima volta dal monaco astrologo Cesare Manusardi nel 1635 con il titolo di Magnus Piscator Cerelevallensis, successivamente intitolato Il pescatore di Chiaravalle (da cui il nome di “Tzravàlliu”).

mese di maggio

Il calendario, oltre a 12 straordinarie foto storiche di Riola in bianco e nero, una per ogni mese, contiene antichi proverbi, modi di dire, poesiole e invocazioni (tutti rigorosamente in dialetto riolese), legati principalmente alla vita contadina e alle tradizioni religiose. Un lavoro molto utile e interessante (un piccolo  viaggio a ritroso nel passato) che consente di  riscoprire e far conoscere ai più giovani  alcuni frammenti di una cultura e di una tradizione oramai quasi scomparsi. 
"Su Tzravàlliu", stampato inizialmente in un numero limitato di copie, è attualmente in fase di ristampa. Chiunque desideri prenotarne una o più copie può contattare direttamente Roberto Demontis al seguente indirizzo di posta elettronica: bebodemon@alice.it

(g.l.)

martedì 27 dicembre 2011

Còntusu: “IL CURIOSO” - di Giuseppe Mocci

Curioso è colui che vuol vedere, vuol conoscere tutto ciò che lo circonda, forse per arricchire le sue conoscenze, o forse anche perché è un rompiscatole.
Io sono un curioso e per questo vizietto mia moglie spesso mi rimprovera, perché non rimetterei bene al suo posto tutto ciò che è stato oggetto della mia curiosità.
Nel 1946, vigilia di Natale, mi trovavo a Riola in vacanza e un giorno, per passare il tempo, mi ero aggregato ad una piccola comitiva per andare a Milis a prendere delle arance che, allora, erano molto ricercate per la loro fragranza ed il sapore gradevolissimo.

agrumeto a Milis

Eravamo in tre, come nella famosa canzone di Modugno; l’asino però non c'era. Eravamo in tre... ma c’era il cavallo, il carrettiere, un certo Daga ed io.
La comitiva era stata così composta da mio padre per portare un dono (una damigiana di vino rosso e un’altra di Vernaccia) ad un suo caro amico e vecchio compagno d’armi della guerra del '15/18, che ricambiava con ceste di mandarini e arance.
Il carrettiere era "su tzaraccu" di casa, mentre il Daga era un amico di babbo sposato a Milis.
Come tutti gli anni, nel periodo natalizio, si svolgeva questo rito. Anche il Daga andava a Milis, dai parenti della moglie, per lo stesso motivo, cioè lo scambio di doni.
Ricordo che, appena giunti nell’agrumeto dell’amico di mio padre, scaricammo le damigiane dentro una grande capanna, il cui pavimento era attraversato da una canaletta d’irrigazione.
Prima di cogliere gli agrumi, oggetto abbondante del dono per mio padre, il padrone di casa (o, per meglio dire, di capanna) offrì da bere a tutti. 
Io, mentre loro parlavano e parlavano, incuriosito guardavo su, giù, sotto un tavolo, dentro un otre di terra cotta coperto da una tavola tonda (ũ ziru) .
Ad un certo punto, il Daga chiese al padrone di casa spiegazioni sulla canaletta che passava al centro della capanna e a fianco de su ziru. Avuta la spiegazione, il Daga chiese anche di sapere il motivo della presenza dell’otre.
Il padrone di casa sorrise a lungo e chiese a noi tutti di indovinare cosa contenesse “su ziru”, promettendo a chi avesse indovinato il contenuto, come premio, il suo agrumeto.
Incominciò il Daga, nominando tre cose (come prima stabilito) senza indovinare. Lunga e sonora risata del padrone di casa. Seguirono poi, inutilmente, le risposte del carrettiere, alle quali seguirono lunghe e divertite risate del medesimo padrone di casa.
Fattosi silenzio, io, alzando la mano per richiamare l’attenzione dei presenti, chiesi di poter partecipare alla scommessa, asserendo, per scherzo, di essere un indovino.
Il padrone della capanna accettò subito la scommessa, anzi, aggiunse:
"A te faccio dare quattro risposte!"
Non accettai la proposta e dissi:
A me ne bastano tre, perché spesso indovino con la prima!
Il carrettiere e il Daga, stupiti e sicuri della mia sconfitta, mi invitarono a rinunciare, mentre il padrone della capanna mi incoraggiò a procedere.

"Zìrusu" - giare utilizzate per conservare olio o altri alimenti

Allora diedi la prima risposta:
“Ĩ custu ziru 'nchi funti tammatigasa siccàdasa!”(1)
Seguirono fragorose risate da parte di tutti. Seguì la mia seconda risposta, fingendomi goffamente ispirato:
“Ĩ su ziru ddu esti ũ fiascu ‘e bĩu po infriscai!”(2) 
Seguì un'altra sonora risata, mista a qualche lacrima da parte dello stesso padrone della capanna. Da autentico buffone, io avvertì i presenti di avere la risposta giusta e aggiunsì:
Mantenete bene il padrone della capanna, perché adesso lui perderà l’agrumeto!
Silenzio assoluto per qualche istante, poi il Daga mi invitò ad essere più gentile e a non fare il buffone.
Sorridendo, chiesi al padrone scommettitore se potessi procedere. Avuta risposta affermativa, dissi:
Aintru de custu ziru ddu i fùntisi ambìddasa bìasa!(3)
Il padrone scommettitore, sbiancò in viso e cadde all’indietro.
Finita la tragicomica scena delle anguille, come se niente fosse successo, riempimmo le ceste di agrumi e tornammo a Riola. 
I due compagni, durante il viaggio di ritorno mi tempestarono di domande, invitandomi a dare una spiegazione. Uno mi disse che la mia risposta era stata pura fortuna, l’altro invece si congratulò con me, chiamandomi nuovo mago.
Per anni non rivelai ai due il mio prodigio a Milis. Ricordo di aver svelato al Daga la famosa mia "indovinazione in occasione di un’altra clamorosa scommessa durante la Festa di Sant’Anna del 1960.
In quella occasione indovinai tutte le carte di un mazzo da quaranta, perché avevo messo, prima della scommessa, uno specchietto su una nicchia che si trovava di fronte a me. Tutti i presenti rimasti sconcertati, non si erano accorti del trucco.
Il Daga, allora, raccontò della scommessa di Milis, convinto dei miei strani poteri. Quindi, per non creare false convinzioni sui miei giochetti, spiegai il trucco messo in essere per le carte, indicandole sulla nicchia. Poi spiegai al Daga come avessi vinto la scommessa di Milis.  Gli dissi:
Tziu Zuanni (non ricordo il nome, ma chiamiamolo così), candu séusu intràusu ĩ sa barracca de su mibiresu, ‘osàtrusu si séisi setziusu a buffai, deu invètzisi, poita seu curiosu, appu farrogau tottu e appu biu is ambìddasa!” (4)


Note:

1) “Ĩ custu ziru 'nchi funti tammatigasa siccàdasa!” = "In questa giara ci sono pomodori secchi!";
2) “Ĩ su ziru ddu esti ũ fiascu ‘e bĩu po infriscai!” = "Nella giara c'è un fiasco di vino per rinfrescare!";
3) “Aintru ‘e custu ziru ddu i fùntisi ambìddasa bìasa!” = "Dentro questa giara ci sono anguille vive!";
4) “Tziu Zuanni, candu séusu intràusu ĩ sa barracca de su mibiresu, ‘osàtrusu si séisi setziusu a buffai, deu invètzisi, poita seu curiosu, appu farrogau tottu e appu biu is ambìddasa!” = "Tziu Giovanni, quando siamo entrati nella baracca del Milese, voi vi siete seduti a bere, io invece, poichè sono curioso, ho controllato da per tutto e ho visto le anguille!".

Testo di Giuseppe Mocci - Tutti i diretti riservati.

Editing G.Linzas 
Revisione riolese B.Sulas

sabato 24 dicembre 2011

Ricordi d'infanzia: “GLI ZAMPOGNARI” di Giuseppe Mocci

La zampogna è uno strumento a fiato di origine pastorale, costituita da un otre di pelle di capra, riempito d’aria che funge da serbatoio d’aria e che consente al suonatore di prendere fiato senza interrompere il suono. Sono connesse all’otre quattro canne, due a note fisse e due che modulano il suono; il suonatore gonfia l’otre tramite un cannello di insufflazione.
Quando, negli anni trenta del secolo scorso, gli zampognari arrivavano a Riola o in qualsiasi altro paese o città, invadevano piacevolmente del loro suono le strade e le case.
“Il suono, dolce e malinconico, che annunciava la novena dell’Immacolata ed invitava all’attesa del Santo Natale”.
Ricordo che questi antichi suonatori – definiti dal poeta Giocchino Bellii bardi girovaghi” - a Riola facevano la prima tappa nel piazzale delle Scuole elementari, dove, all’uscita degli scolari, iniziava la tradizionale suonata che si concludeva in piazza di chiesa; rito questo che voleva significare un invito “Eccoci, siamo arrivati. Ci rivediamo presto!”.
Gli scolari, tutti, riferivano in casa dell’arrivo dei suonatori con grande piacere, chiedendo ai genitori di poterli rivedere per sentire la canzone di Natale e acquistare la “fortunella”.
Il suonatore infatti era sempre accompagnato da un’altra persona (spesso la stessa moglie) che portava appesa al collo una gabbietta con dentro un piccolo pappagallo il quale, col becco, offriva la “fortunella” al costo di tres’arriàisi.
Al riguardo, secondo un amico più giovane di me, il costo sarebbe stato di “ũ soddu”, del valore di dieci centesimi di lira.
 La “fortunella” era un foglietto di carta, di diverso colore, finissimo, che riportava sempre parole di speranza, auguri di ogni bene, promesse varie: dalla vincita al lotto, al prossimo fidanzamento e nozze.
A proposito di questa “fortunella” scriveva il poeta Gianni Rodari: “Se comandasse lo zampognaro che scende per il viale, sai cosa direbbe il giorno di Natale? Voglio che in ogni casa spunti dal pavimento un albero fiorito di stelle d’oro e d’argento.
Compravano la “fortunella” i ragazzini, le ragazzine, i giovanotti e le giovincelle, tutti ansiosi di conoscere il loro destino. Ma, da casa, tutti gioivano sentendo il bellissimo ed indimenticabile Canto di Natale; la zampogna suonava per tutti, perché i suonatori percorrevano tutte le vie del paese, intonando: “Tu scendi dalle stelle, o re del cielo…”.

Testo di Giuseppe Mocci - Tutti i diritti riservati.

Editing G.Linzas


mercoledì 21 dicembre 2011

Il “CREU” in dialetto riolese – a cura di Benedetto Sulas



"Creu ĩ ũ solu Déusu..."

Mia nonna paterna, pur non frequentando quotidianamente la chiesa, era tuttavia molto devota e ogni giorno recitava in dialetto le preghiere.
Tra queste anche il simbolo del credo, come si recitava allora, senza il “filioque”:

Creu ĩ ũ solu Déusu,
babbu tottu poderosu, criadori de su sellu e de sa terra.
ĩ Zesu Cristu fillu suu ùnicu, Sannori nostu.
Su cali est istéttiu cunsebiu po opera de su Spìridu santu e esti nàssiu de Maria Vìrzini.
Adi patiu bassu su poderi de Pòntziu Pilatu.
Esti istéttiu crutzificau, mottu e sepurtau.
Esti cabau a s’inferru,
sa tertza dii esti arresussitau de intr’e i mòttusu.
Esti artziau a su sellu, innui esti sétziu a sa mãu daretta de su Déusu babbu nostu poderosu.
De innì adi a benni a zudicai i bìusu e i mòttusu.
Creu ĩ su Spìridu santu, sa Santa Crésia cattólica
sa Comuniõi de i sàntusu, su pedrõu de is peccàusu,
sa resurretzĩoi de sa carri, sa vida eterna
Amin Zesu


Testo a cura di Benedetto Sulas - Tutti i diritti riservati

domenica 18 dicembre 2011

STORIA DELLA SARDEGNA: I SAVOIA/AOSTA/CARIGNANO E LA SARDEGNA


Da Vittorio Amedeo I, che, da semplice duca di Aosta divenne re di Sardegna nel 1720 per volere dei vincitori la guerra di successione spagnola e che regnò fino al 1730, a Carlo Emanuele I, a Vittorio Amedeo II, a Carlo Emanuele II, tutti tentarono di disfarsi della Sardegna, ritenuta un fardello inutile e gravoso per il Regno.
Essi trattarono con diverse altre monarchie per fare uno scambio di territorio o avere altri vantaggi.


VITTORIO AMEDEO I (o II dei Savoia/Aosta) - 1720/1732 


Come abbiamo visto precedentemente, Vittorio Amedeo I, da semplice duca di Savoia e Aosta e Principe del Piemonte, divenne re di Sardegna. La sua promozione avvenne per meriti di guerra, in quanto come un signore della guerra qual’era ( possedeva un esercito formidabile e seppe scegliere il momento opportuno e lo schieramento vincente), partecipò con successo alla lunga guerra di successione spagnola.
Egli non venne mai in Sardegna; ne prese possesso un suo luogotenente o viceré, Guglielmo Pallavicini, barone di San Remy, col compito precipuo di vedere, conoscere e riferire. Il Pallavicini, preso possesso del Regno, fece una relazione dettagliata della Sardegna al re, in cui elencava “tutti i mali e le miserie che si erano accumulati e stratificati nei secoli del dominio spagnolo”.
Il re, comunque, non si adoperò affatto per porre rimedio ai tanti mali, “né ad amministrare la Sardegna con lo stesso impegno profuso in favore del regno di terra ferma, come si chiamavano allora il ducato di Savoia e il Piemonte. Non convocò il Parlamentino sardo (i famosi tre bracci dello Stamento), nonostante il Trattato di Londra gli imponesse la conservazione dello status quo del Regno. Vittorio Amedeo,  praticamente, conservò in Sardegna i benefici ai feudatari filo spagnoli e al clero. Egli si adoperò invece per disfarsi dell’isola, che considerò un inutile fardello gravoso per il regno”.
La fine del primo re sardo della casata dei Savoia/Aosta fu alquanto infelice. Come già detto, il re non mise mai piede in Sardegna, vi inviò un suo luogotenente, un viceré. Questi, stando così le cose, poté fare ben poco, anche perché in Sardegna vigeva una legge diversa da quella in vigore nella terra ferma. In Sardegna infatti vigeva ancora l’anacronistica “Carta de Logu de Arborea”. Il barone di San Remy comunque riuscì a mettere un po’ d’ordine nella pubblica amministrazione e nella pubblica sicurezza, combatté l’ingerenza del clero nella politica e nell’amministrazione; soppresse l’abuso del diritto d’asilo accordato in modo estensivo dagli ecclesiastici, per cui le chiese erano diventate rifugio di bande intere di pericolosi banditi.
Nel 1730 Vittorio Amedeo I abdicò in favore del figlio Carlo Emanuele, ma l’anno dopo pretese di risalire sul trono. Imprigionato, fra moti d’ira e crisi depressive, morì nel 1732 nel castello di Moncalieri. Degno di nota il vizio dei Savoia/Aosta di ricorrere spesso all’abdicazione, caratteristica che denota insicurezza o mancanza di coraggio ad affrontare le gravi situazioni.


CARLO EMANUELE I (o III dei Savoia- Aosta), detto beffardamente CARLIN - 1730/1773


Egli si adoperò in modo particolare per ingrandire il suo regno di terra ferma, con opportune alleanze e trattative con le grandi potenze europee, sempre in lotta fra di loro. Ottenne infatti l’annessione di Novara, Tortona, Vigevano, Voghera e, per poco tempo, anche della Lombardia, che dovette subito restituire ottenendo in cambio la Liguria. In quel periodo molti altri sovrani e principi italiani effettuarono nei loro stati miglioramenti ed innovazioni. “Carlo Emanuele fece poco per il suo regno di terra ferma e nulla o quasi per la Sardegna. L’unica innovazione è stata l’ attivazione del Servizio Postale”.
Anche questo re non mise mai piede in Sardegna, non ostante, anche, l’invito formale del suo luogotenente marchese di Rivarolo a voler visitare l’isola. Il marchese, comunque, riuscì a realizzare qualche innovazione: fece ripartire equamente le imposte, combatté il banditismo con fermezza e provvedimenti draconiani (con un pregone si impose ai sardi l’obbligo del taglio della barba, allora sinonimo di bandito), rifondò le Università di Cagliari e Sassari, sollecitò l’uso dell’italiano quale lingua ufficiale del regno per consiglio del conte Giambattista Lorenzo Bogino, ministro per gli Affari di Sardegna.
Il famoso Bogino (noto a tutti per oltre due secoli e ancora il suo nome viene usato come malaugurio: “chi ti cùrrada su Bugiu”). Egli era praticamente il Ministro per le colonie, perché come colonia venne trattata la Sardegna dai Savoia. Sempre al marchese di Rivarolo si deve la fondazione della città di Carloforte, sorta ad opera di “alcuni profughi liguri-tabarchini”, da lui incoraggiati. Altra innovazione si ebbe con un editto del 1771, con il quale vennero emanate le norme per l'istituzione e il funzionamento nei paesi isolani dei Consigli Comunali e la nomina del Sindaco. Carlo Emanuele morì nel 1773 e gli successe il figlio Vittorio Amedeo II (o IV dei Savoia).


VITTORIO AMEDEDO II (o IV dei Savoia-Aosta) - 1773/1796 


Egli regnò nel periodo della grande rivoluzione francese (1789), e, naturalmente, si alleò con gli imperi europei contro la Francia. Questa alleanza gli procurò “la vendetta dei rivoluzionari che invasero Nizza e Savoia”. Seguirono poi vari tentativi della Francia di occupare la Sardegna; vedasi lo sbarco nel cagliaritano dell’ammiraglio Truguet del 1792, l’occupazione di Carloforte e di Sant’Antioco, il tentativo di occupazione di La Maddalena. Durante il suo regno si sviluppò in Sardegna un lungo periodo di giuste contestazioni, ad iniziare dalla vittoria dei sardi sulla Francia. Infatti subito dopo la cacciata dei francesi, grazie all’eroismo dei sardi che “speravano nella ricompensa del sovrano per la fedeltà al trono, una delegazione formata da sei rappresentanti degli Stamenti Sardi chiese inutilmente a Vittorio Amedeo II di riunire nuovamente i Parlamenti ogni dieci anni; di riconfermare tutti gli antichi privilegi; di riservare esclusivamente a persone indigene tutti gli impieghi civili e militari, tranne i più alti; di creare a Torino uno speciale ministero per le questioni dell’isola; di istituire a Cagliari un Consiglio di Stato per il controllo di legittimità anche nei confronti dei viceré”. Come abbiamo già visto “il rifiuto regio provocò un moto di ribellione fra i notabili e il popolino cagliaritano che, il 28 aprile 1794, catturò i 514 funzionari piemontesi, compreso il vicerè Vincenzo Balbiano. Ripristinata la legalità istituzionale con l’arrivo del nuovo viceré Filippo Vivalda, sorsero altre grandi ed estese contestazioni contro la nobiltà conservatrice sassarese e i feudatari del Logudoro, che tentarono di rendersi autonomi da Cagliari. “I cagliaritani, allora, sobillarono contro di essi i loro vassalli già in fermento. “Il vicerè Vivalda, “temendo che la protesta degenerasse in rivolta, inviò il Giudice della Reale Udienza, Giovanni Maria Angioy, con poteri di alternos (del vicerè stesso) a Sassari. Seguirono poi i fatti già narrati nel capitolo su Giovanni M. Angioy. Ristabilita nuovamente la legalità istituzionale nell’isola, anche a seguito dell’accettazione da parte del re delle famose cinque richieste degli stamenti sardi, nel 1796 Vittorio Amedeo II moriva a Moncalieri e gli successe il figlio Carlo Emanuele II (o V dei Savoia).


CARLO EMANUELE II (o V dei Savoia-Aosta) - 1796/1802 


Carlo Emanuele II successe a Vittorio Amedeo II nel periodo più triste del Regno di Sardegna e quando si erano appena concluse le insurrezioni e le rivolte dei sardi, con le conseguenti severe e crudeli condanne. Carlo Emanuele II venne, non di suo proposito, nell’isola, ma perché cacciato da Torino da Napoleone, che aveva invaso il Piemonte.
Egli arrivò a Cagliari nel 1799 con tutta la famiglia: la moglie e i due fratelli Vittorio Emanuele e Carlo Felice. Cessarono le attività viceregie del Vivalda, “ma l’attività di governo del re fu minima e agevolata dall’atteggiamento moderato degli stamenti, i quali accettarono passivamente l’imposizione di nuove imposte e di sussidi straordinari.”. Nominato viceré il fratello Carlo Felice, dopo appena sei mesi ripartì per la penisola, in attesa di riottenere il Piemonte che stava per essere riconquistato dalle truppe austro-russe. Non fece in tempo a rivedere la sua Torino, perché mentre si trovava a Roma in attesa della liberazione del Piemonte, gli morì la moglie nel 1802. Sconsolato abdicò in favore del fratello Vittorio Emanuele I e si fece gesuita; morirà poi nel 1819.


VITTORIO EMANUELE I ( o VI dei Savoia) - 1802/1821


Egli si trovò ben presto sovrano solo della Sardegna, perché il Piemonte fu assegnato al Primo Console Napoleone Bonaparte. Rilevato il fratello Carlo Felice dal governo dell’isola, la sua attività si ridusse a ben poca cosa. Del suo operato si ricorda la divisione dell’isola “in quindici prefetture con competenza anche in materia giudiziaria”, la concessione di titoli nobiliari a “chi impiantava quattromila ulivi, nel tentativo di incrementare l’agricoltura (a Cuglieri e a Sassari il tentativo ebbe successo). “Istituì un Monte di Riscatto, per l’ammortamento del debito pubblico. Anche durante il suo breve regno si verificò in Sardegna un tentativo di rivolta, organizzata da un gruppo di notabili cagliaritani antipiemontesi, rivolta ricordata come la "congiura di Palabanda", nei pressi del quartiere Stampace. La congiura venne sventata e i “più compromessi furono scoperti, catturati, processati e condannati.”.
Finalmente, dopo la sconfitta e l’esilio a Sant’Elena di Napoleone, “Vittorio Emanuele I, lasciava la moglie a rappresentarlo a Cagliari e partiva per Torino, dove entrava trionfante”.
“Nel 1815 anche la regina Maria Teresa raggiunse il marito a Torino, ed in Sardegna la carica viceregia fu di nuovo assunta dal Carlo Felice”.
Anche Carlo Felice, ultimo dei Savoia, lasciò l’anno seguente l’isola,“che amministrò con austerità e rigore, nominando suo reggente il generale tempiese Giacome Pes di Villamarina. Seguirono Ignazio Thaon de Revel e, infine, Ettore Veuillet di Yenne. Di quest’ultimo si evidenzia il grande fervore nell’applicare la famosa "legge delle chiudende", del 1820. Questa legge “stabiliva, per la parte agricola, che qualunque proprietario avrebbe potuto liberamente chiudere di siepe o di muro o vallar di fossa qualunque suo terreno non soggetto a servitù di pascolo, di passaggio, di fontana o d’abbeveratoio. Legge che creò insanabili conflitti fra contadini e pastori, abituati quest’ultimi a pascolare liberamente.”.
Ci furono disordini e sollevazioni un po’ dappertutto, specie nel nuorese. Nel 1821 si verificarono i primi moti liberali di Santorre di Santarosa e le insurrezioni delle guarnigioni di Alessandria, di Pinerolo e di Vercelli “al grido di Viva la Costituzione”. In quei giorni si sollevarono anche altre guarnigioni. “Vittorio Emanuele I, piuttosto che concedere la Costituzione, abdicò in favore del fratello Carlo Felice che si trovava a Modena, 1821.


CARLO FELICE (VII dei Savoia-Aosta) - 1821-1831 


Questi affidò momentaneamente la reggenza al giovane nipote Carlo Alberto, il quale acconsentì alle richieste dei rivoltosi. “Carlo Felice, indignatissimo, dichiarò da Modena di non riconoscere la Costituzione e tolse la reggenza a Carlo Alberto”. Poi invocò l’aiuto della Santa Alleanza… “per salvaguardare i principi della religione cristiana e per mantenere nel continente europeo l’assetto politico espresso dal Congresso di Vienna”. Nel 1831 Carlo Felice, ammalato e stanco, si era ritirato nel castello di Moncalieri, dove morì nello stesso anno, dopo aver però indicato suo successore, il disprezzato ed avversato nipote Carlo Alberto, impostogli dall’Austria. Avrebbe detto “ai suoi ministri radunati attorno al suo letto : ‘Ecco il mio erede e successore, sono sicuro che farà il bene dei sudditi’”.
Durante il suo regno venne progettata la costruzione dell’unica strada che da Cagliari conduce a Porto Torres, chiamata da lui Carlo Felice, oggi strada statale 131. Viene ricordato dai sardi per alcuni provvedimenti sull’istruzione elementare e superiore, sulla organizzazione del settore sanitario e sulla riorganizzazione degli uffici di polizia per combattere la delinquenza ed il banditismo. Da evidenziare in modo particolare “la promulgazione nel 1826 del Codice di leggi civili e criminali del Regno di Sardegna, sostitutivo dell’anacronistica Carta de Logu de Arborea, che veniva applicata solo in Sardegna”. Subito dopo l’applicazione della nuova legge si procedette anche all’unificazione del regno di Sardegna al Regno di terra ferma, detta anche: “Unificazione perfetta con gli stati di terra ferma.”. Unificazione che era stata invocata a Cagliari e a Sassari da grandi manifestazioni pubbliche. Con l’unificazione perfetta venne finalmente a cessare l’istituto del Viceré.


CARLO ALBERTO (I dei SAVOIA CARIGNANO) - 1831/1848 


Con l’ascesa al potere di Carlo Alberto, nel 1831, la dinastia Savoia/Aosta passa ai Savoia/Carignano, perché gli zii, gli ultimi Savoia/Aosta, non avevano avuto eredi.
Egli, subentrato allo zio Carlo Felice, cambiò l’atteggiamento della casa Savoia nei confronti della Sardegna. Carlo Alberto venne in Sardegna di sua volontà e, in previsione della sua venuta, aveva dato incarico al Marchese sardo di Villamarina di preparargli una dettagliata relazione sulle condizioni della Sardegna e di suggerirgli un itinerario da percorrere. Venne quindi dopo essere stato informato delle pessime, incivili e insopportabili condizioni in cui la Sardegna era stata lasciata dalla Spagna e che ancora, dopo oltre un secolo di dominazione piemontese, vi permanevano. Visitata la Sardegna e preso atto della misera realtà sarda, Carlo Alberto condannò con parole molto severe la politica adottata da suoi predecessori. Durante il suo breve regno, si adottarono provvedimenti migliorativi più incisivi nei confronti dell’Isola. Si procedette, finalmente, all’abolizione tante volte promessa del feudalesimo sardo, che sarà attuato nel 1838 attraverso il riscatto dei diritti feudali, il cui pagamento sarà messo a carico dei Comuni isolani. Nell’Oristanese, l’odierna IV Provincia, i Comuni pagarono il riscatto del Feudo al marchese Flores D’Arcais. Purtroppo venne commesso allora un grave errore: vennero lasciati in possesso dei Flores D’Arcais le famose peschiere di Pontis, che pure facevano parte del feudo riscattato.
Carlo Alberto di Savoia/Carignano viene ricordato, soprattutto, per la concessione della Costituzione dopo i motti del 1821, quando era reggente dello zio Carlo Felice. Con lui hanno inizio le guerre del Risorgimento, perché orientò la sua politica contro l’Austria, contro la quale combatté varie battaglie; alcune vittoriose come Goito, Pastrengo e Pescara; altre, le determinanti, Custoza e Novara, si conclusero con sconfitte.
Carlo Aberto fu quindi costretto ad accettare l’armistizio e ad abdicare in favore del figlio Vittorio Emanuele II. Egli si ritirò in esilio in Portogallo, dove morì nel 1849 a Oporto.
Sulle battaglie combattute dall’esercito di Carlo Alberto si diceva, allora, in Piemonte: “l’esercito piemontese entra vittorioso a Goito”. Ma quando lo stesso esercito veniva sconfitto la frase ricorrente in Piemonte era : “l’esercito sardo sconfitto a Custoza”.

Testo a cura di Giuseppe Mocci - Tutti i diritti riservati

mercoledì 14 dicembre 2011

Antichi mestieri: “SU CASTIADORI”



“S’UMBRAGU DE SU CASTIADORI”
di Giuseppe Mocci


S’umbragu era, fino alla fine degli anni sessanta del secolo scorso, una sorta di capanna di frasche o tettoia sopraelevata, sede e recapito di Su Castiadori, cioè il guardiano delle vigne di una ben determinata zona agricola. 
A Riola, allora, c’erano quattro o cinque zone densamente coltivate a vite. D’estate, quindi, c’erano altrettanti umbràgusu col rispettivo Castiadori
Ricordo la zona di Prunis, dove i miei possedevano le vigne. “Su Castiadori” di questa zona era un vecchietto, di nome Tziu Demontis o 'Mòntisi, che ho avuto il piacere di conoscere, perché mio padre mi mandava qualche volta da lui per portargli delle provviste.
Era un uomo simpaticissimo e, nonostante l’età avanzata, molto attivo. Era sempre in movimento.
Non saliva quasi mai sopra “s’umbragu”, che lui chiamava sa pinnetta”; questa, lui la considerava una specie di spaventapasseri, anzi spaventa ladri. Quando, stanco, si voleva riposare, si coricava da qualche altra parte, in un punto sempre diverso.
Con questa tattica Tziu Demontis otteneva ottimi risultati; mai nessuno si è lamentato del suo servizio.
Per questo lavoro egli veniva pagato in danaro, oppure con vino, olio, o con altro prezioso alimento, in proporzione all’estensione della vigna da controllare. Il servizio finiva con la vendemmia. 

foto d'epoca: Su Castiadori 

"S’umbragu"  veniva costruito, tutti gli anni, dopo la Festa di Sant’Anna, nel punto più elevato della zona, con visibilità a trecentosessanta gradi; inoltre, veniva elevato di oltre sei metri da terra, sorretto da robusti e lunghi pali (materiale che veniva fornito, gratuitamente, da mio padre, ex impresario edile). Da lassù, punto magnifico di osservazione, si poteva vedere tutta la zona circostante, dallo stagno di Mare ‘e Pontis al mare. 
Ricordo che un anno - frequentavo la V elementare - ho partecipato alla sua costruzione, e con me c’era anche un mio coetaneo, Giustino Meli, i cui genitori possedevano una vigna, la più vicina a “s’umbragu”.
Col permesso di Tziu Demontis io e Giustino, spesso, salivamo al piano alto di osservazione e sognavamo di trovarci su qualche spiaggia del Sinis, di cui non conoscevamo nemmeno il nome.
Ci bastava vedere il mare da lontano e con la fantasia ci trovavamo già in acqua a fare il bagno.



Nota:
L'ultimo "Castiadori" che ha operato nelle campagne riolesi - ricorda Benedetto Sulas - è stato, alla fine degli anni '60, primi anni '70, Tziu Felicino Meloni. Egli controllava tutta la zona di "Is Ariscas" (zona densamente coltivata  a vite), dove aveva il suo punto di osservazione sopraelevato.


Testo di Giuseppe Mocci - tutti i diritti riservati

Editing G.Linzas




lunedì 12 dicembre 2011

Ricordi d’infanzia: “SU ‘OI FORRÀĨU ” di Giuseppe Mocci

Quando ero ragazzino, forse avevo sei o sette anni, mi ero appassionato a disegnare uccelli, ma in modo particolare quelli che mio padre, cacciatore, portava a casa. I preferiti erano le pernici, le folaghe e le anatre. Io però desideravo disegnare un uccello di cui sentivo parlar male dalla mia nonna paterna, Anna Manca, riolese autentica. L’altra nonna, Rosalia Mannu, nata e cresciuta a Luras in Gallura (altro ambiente, altra cultura, altre abitudini e credenze), non ne parlava male. L’uccello era “SU ‘OI FORRÀĨU".
Ricordo che chiedevo spesso a mio padre di portarmi uno di questi uccelli, di cui tanti parlavano,  ma che pochissimi avevano visto. 
Nonna Anna non gradiva parlarne perché per lei era il Demonio, Su Tiau. Usava ripetere che il canto di questo uccello era il richiamo della morte e, soprattutto, di chi era destinato all’inferno. 
Non avendolo mai visto, ella mi descriveva un animale irreale. Io non riuscivo ad immaginarmelo, ma mi spaventavo sempre quando, nelle lunghe notti invernali, si sentiva il suo lugubre, rimbombante e prolungato verso, simile al muggito di un toro ferito. 
Quando invece mi portava a letto nonna Mannu, la cosa cambiava aspetto. Al canto del mostro, lei rideva  vedendomi nascondere sotto le coperte; allora mi scopriva la testa e mi assicurava che quel mostro non esisteva, che quel muggito era, invece, il canto di un bellissimo uccello che viveva nella vicina palude; e aggiungeva di averlo visto disegnato in un libro.
Ella me lo descrisse come un grosso uccello acquatico dal piumaggio color fulvo, con macchie e striature nere sul corpo, il collo alquanto allungato con piumaggio molto più abbondante ed un becco lungo e appuntito.
Solo a Riola, diceva lei, questo uccello veniva disprezzato; era considerato il nemico dei pescatori perché mangiava molluschi, crostacei e i pesci appena nati, ma si nutriva anche di rane e di insetti acquatici come le zanzare. Passava il giorno ben mimetizzato tra le erbe palustri e usciva al tramonto per nutrirsi, come un famelico rapace notturno. 
Altro ricordo indelebile di quegli anni è la morte di un vecchio possidente. Egli, alto e forte, gran lavoratore, aveva oltrepassato abbondantemente i novant'anni, ma non aveva frequentato la chiesa.
Morì di notte e le beghine, la mattina successiva, al rintocco “a morto” delle campane (is ispiratziõisi), in coro dicevano:
Balla... nontesta adi cantau bẽi su ‘oi forràĩu, za fiada ora chi su tiau chi ddu potéssidi!
Forse solo nonna Rosalia non era d’accordo, ma le riolesi tutte si segnarono. 
Bonificate le paludi, venne a mancare l’habitat e il nostro uccello sparì. Ricordo che un mio vecchio amico, il simpaticissimo commendatore Virginio Sias, dopo quarant’anni di vita militare, diventato cacciatore dilettante (molto dilettante, tanto che i cacciatori incalliti lo consideravano uno “spara fucile”) ebbe la fortuna di abbattere un bell'esemplare di “’oi forràĩu, forse uno degli ultimi.

esemplare di Tarabuso (su 'oi forràĩu)

Non avendolo mai visto, fortemente incuriosito, l’amico lo fece vedere agli esperti dell’Ispettorato Agrario, che lo riconobbero subito; l’uccello era un Tarabuso (nome scientifico: Botaurus stellaris)
La descrizione dell’uccello che fecero gli esperti, riferitami dall’amico Sias, corrispondeva a quella fattami trent’anni prima da mia nonna Rosalia. 
Io e l’amico Sias sapevamo già che questo uccello palustre, considerato un fantasma, ora quasi estinto, era stazionario e nidificava nelle nostre paludi, con preferenza per quelle di Bass’e crésiasituate a valle dell’antica chiesa medievale di Santa Corona, nelle aree adiacenti al fiume. 


Testo di Giuseppe Mocci – tutti i diritti riservati 

Editing G.Linzas 
Revisione dialetto riolese B. Sulas


La leggenda dei morti:  "I tarabusi" (tratto dal sito del  Comune di Riola Sardo )

Prima che le paludi vicine al paese venissero bonificate, ogni venerdì verso sera, si sentivano le urla rauche dei tarabusi. Il terribile muggito dell’uccello, conosciuto come “su boi forraiu” (in latino “bos taurus"), era talmente impressionante tanto che il bestiame che vi pascolava fuggiva spaventato, così pure gli uomini che si trovavano nei paraggi. 
Secondo la superstizione popolare si credeva che queste urla appartenessero a delle anime in pena, ossia alle anime di quelle persone che nella vita terrena si erano comportate male. Dopo la morte la loro anima era andata in possesso del diavolo, pertanto si trovavano nella palude, facendo penitenza.

venerdì 9 dicembre 2011

Annotazioni sul dialetto Riolese: “ASTRONOMIA” a cura di Benedetto Sulas

Antica carta astronomica illustrata (Pleiadi Taurus)


"S'arròia e sa palla" e "Su trõi de s’àghia"

Tutti i popoli, nei tempi antichi, osservavano il cielo, sia per motivi spirituali, sia per motivi pratici di orientamento. 
Diedero nome a pianeti, stelle, costellazioni e galassie, liberando la propria fantasia nell’attribuire questi nomi. 
 I Sardi non fecero eccezione. Nelle diverse varianti della loro lingua diedero spazio all’immaginazione. 
Nel dialetto riolese, la Via Lattea viene chiamata “S’arròia ‘e sa palla(il rigagnolo di paglia), mentre le Pleiadi (nelle quali i Testimoni di Geova, fino a non molto tempo fa situavano il trono fisico di Dio) venivano chiamate “Su trõi de s’àghia”, il grappolo d’uva.

Testo a cura di Benedetto Sulas 

sabato 3 dicembre 2011

Antichi mestieri: "Su Moentrazzu"

A Riola, nei primi decenni del secolo scorso e fino agli anni quaranta, gli addetti all’agricoltura erano in maggioranza, seguivano gli allevatori di ovicaprini (pecore e capre), di bovini (buoi e vacche), a seguire i pescatori e gli artigiani. Ma tutti erano, di necessità, allevatori di asini.
Allora, questi animali venivano allevati dalla quasi totalità delle famiglie che li utilizzava per fare girare la macina del grano. 

foto d'epoca: asinello che gira la macina (*)

Riola, trovandosi in pianura, non disponeva di torrenti come i paesi di montagna, dove le macine del grano venivano mosse dall’acqua corrente.
Non era ancora arrivata l’energia elettrica, per cui le famiglie erano costrette a manovrare a mano la macina, i poverissimi, oppure ad allevare un asino, tutti gli altri. Il molino elettrico non era ancora entrato in funzione, per cui si faceva tutto in casa: la farina e il pane. 
Il grano, il cereale alimentare più diffuso, veniva prodotto a Riola in grande quantità e costituiva anche la provvista più importante, assieme all’olio d’oliva che veniva conservato in grosse anfore di terracotta chiamate zìrusu.
Gli altri componenti importanti delle provviste della famiglia erano la carne di maiale e il lardo (entrambi salati), i salumi vari, gli animali allevati in cortile e il vino, tenuto in cantina. 
Il grano, come provvista alimentare, veniva conservato dentro un cilindro fatto da un intreccio di canne,s’òrriu”, alto circa due metri per poterlo riempire con facilità dall’alto, con il fondo (costituito sempre da un intreccio di canne) sorretto da una tavola e sopraelevato dal pavimento. S’òrriu aveva una finestrella alla base, all’altezza del fondo, che serviva per prelevare il grano occorrente per preparare la farina per l’intera settimana. 
Per produrre la farina si ricorreva al lavoro dell’asino, che, legato ad un palo al centro di una stanza, doveva far girare la macina di pietra.
Quindi, l’asino svolgeva il suo lavoro - percorso circolare lungo e noioso - sempre di giorno, sotto il controllo costante di qualcuno che doveva riempire continuamente di grano la macina, man mano che procedeva la macinazione; non solo, ma questi doveva anche dare da mangiare e bere all’asino. 
Di sera la bestia veniva portata al pascolo e la maggioranza sopravviveva mangiando quasi sempre l’erba gratuita delle paludi comunali. 

Tziu Arramundu Neri - l'ultimo moentrazzu riolese

Poiché gli asini erano tanti venne istituito il servizio, a pagamento, di prelevamento e accompagnamento degli asini (i moèntisi)  nelle paludi. Il preposto si chiamava Su moentrazzu
L’ultimo moentrazzu è stato un certo Arramundu Neri (Raimondo Neri).
Tziu Neri, prima del tramonto, passava di via in via suonando un corno per avvisare i proprietari degli asini, prelevava gli animali e, formata una specie di grande mandria, li conduceva nelle vicine paludi. 
Il giorno dopo, all’alba, prelevava gli asini e li riportava in paese, distribuendoli, via per via, ai proprietari. 
Un giorno arrivò a Riola l’energia elettrica, venne impiantato un molino meccanico e Tziu Neri si trovò senza lavoro. Forse ottenne la liquidazione (la sua buonuscita) con qualche asino, perché ne possedete uno fino alla fine dei suoi giorni.

(*) Foto d'epoca: Toni Schneider, 1956, Oliena Interno Domestico


Testo di Giuseppe Mocci - Tutti i diritti riservati

Editing G. Linzas