venerdì 25 novembre 2011

SAPORI ANTICHI 2011 - Buon successo per la 3a edizione della rassegna gastronomica Riolese


Si è svolta, sabato 19 novembre, per il terzo anno consecutivo, “Sapori Antichi”, rassegna gastronomica di piatti della tradizione Riolese.
La manifestazione, diventata ormai un appuntamento fisso della stagione autunnale, ha visto una buona partecipazione di pubblico, nonostante la pioggia caduta poco prima dell’apertura della rassegna (questa ha avuto inizio alle ore 17,30 circa).
I partecipanti hanno potuto degustare le pietanze proposte negli otto portoni dislocati nel centro di Riola, percorrendo le vie storiche del paese, in un’atmosfera notturna particolarmente suggestiva.
Nei primi due portoni, situati a poca distanza uno dall’altro, nelle strette vie Petrarca e Marconi, sono state servite le lenticchie (antìllia) e la minestra con pomodori (minestra cũ tammatigasa); nel terzo, in via Dante, le melanzane al sugo (pedrinzãu a bagna); nel quarto portone, situato in via Sant’Anna, in prossimità dell’antica chiesa medievale di Santa Corona, la gallina al sugo (pudda a ghisau); nel quinto, in via Depretis, la frittura di pesce (pischi frittu), mentre nel sesto, in via Regina Elena, le cipolle con uova (chibudda cũ òusu); nel settimo portone (presso la liquoreria Marongiu) il liquore di finocchietto, per concludere poi con i dolci dell’ottavo portone, nella piazza principale di via Umberto I (pillu frìttusu, ziddiãsa, padruasa).


Sono state molto apprezzate le mostre degli artisti e degli artigiani.  In particolare: la mostra di pittura di Giantore Carta abbinata a quella delle ceramiche artistiche di Cristiana Carta, ospitate entrambe nell’ampio salone dell’antica casa Zoncu, situata in via Regina Margherita; l’esposizione delle sculture e dei lavori in pietra di Pietro Corda e di Tore Tola, nella casa Lotta in via Sant’Anna (straordinari l’antico architrave  e gli stipiti scolpiti nella porta d'ingresso dell'abitazione), nonché la bella mostra di cestini ed altri oggetti artigianali (Maria Vidili, Elvira Lochi, Tziu Sebastiano Carta) sempre in via Sant’Anna, per finire poi con la mostra fotografica del bravo Nicolas Carta, in via Garibaldi.


La serata si è svolta in un clima di piacevole allegria, allietata dai “cantadòrisi a ghitarra” Maurizio Mocci, Virgilio Zou, Mario Careddu, Davide Pudda, Cristian Fodde e Leonardo Spina, i quali si sono spostati da un portone all’altro, intrattenendo il pubblico con la musica e i canti.
Si può dire che l’obiettivo della manifestazione sia stato pienamente raggiunto: per una sera il centro storico di Riola si è rianimato e ripopolato di persone che hanno avuto l’occasione di apprezzare, oltre ai piatti tradizionali riolesi, l'ospitalità ed i piccoli tesori nascosti del nostro paese.
La Proloco coglie l’occasione per ringraziare nuovamente tutti coloro che hanno contribuito alla realizzazione dell’evento.
(g.l.)

CÒNTUSU : “SU SPADU” - di Giuseppe Mocci


foto d'epoca: pescatori nello Stagno 

Fino agli anni sessanta del secolo scorso lo Stagno di Cabras  (denominato prima Mare 'e Pontis), ricadente per 2/3 nel Comune di Cabras e per 1/3 nel nostro Comune, era di proprietà privata. Lo amministrava la società Pontis, di cui facevano parte Don Efisio Carta, socio maggioritario, e i suoi numerosi parenti. 
Gli antenati di Don Efisio lo acquistarono dal Marchese di Oristano, Damiano Nurra, che, a sua volta, lo aveva acquistato dai Conti Vivaldi Pasqua di Genova nel 1750. 
Questi proprietari venivano chiamati dalla stampa sarda I Baroni della Lagunae amministravano le peschiere di tutto il comprensorio, che comprendeva la grande peschiera di Pontis, in agro di Cabras e la piccola peschiera, Pischeredda, in agro di Nurachi/Riola.
Non solo, ma questa società deteneva anche il diritto esclusivo di pesca lungo il fiume Rio Mannu, fino a Ponti Zoppu, in agro di Tramatza.
A Riola, allora, esercitavano la pesca, in tutto il compendio dello Stagno di Mare 'e Pontis e di Mare 'e Foghe, una trentina di pescatori. Questi, però, potevano pescare solo a domanda e a pagamento in determinati periodi dell’anno e con limitati strumenti, imposti da un rigido regolamento.
Naturalmente, come da antichissima tradizione, molti altri riolesi praticavano la pesca di frodo nel compendio privato e la pesca libera nelle numerose paludi del Sinis di proprietà del Comune di Riola.

scorcio dello Stagno di Cabras

Sulla pesca nel grande compendio vigeva un rigidissmo regolamento che i pescatori autorizzati dovevano osservare scrupolosamente e sotto il controllo severissimo di numerose guardie giurate, dipendenti dalla società Pontis. 
A capo di queste guardie era preposto un uomo diventato famoso per la sua severità e la spietata lotta ai pescatori abusivi (is 'spadõerisi) o trasgressori del regolamento de “is Meris”.
Questo individuo, soprannominato Su Spadu, cabrarese, in compagnia di un altro suo collega, era presente da per tutto.
Egli si muoveva in barca o in bicicletta, e sempre armato. Quando arrivava in bicicletta tutti lo riconoscevano e lo apostrofavano con parole di malaugurio. Qualcuno, spesso, lo precedeva di gran corsa per avvisare i pescatori di frodo lungo il fiume.
Quando "Su Spadu" arrivava in bicicletta raramente trovava intrusi; mentre quando arrivava in barca, di sorpresa, arrestava sempre qualcuno. Si dice che, in quarant’anni di servizio, abbia arrestato e fatto condannare centinaia di riolesi. 
Famosa è rimasta la condanna a tre mesi con la condizionale inflitta a un ricco possidente, notoriamente non pescatore.
Si racconta che questi, in una giornata afosa di Agosto, di rientro dalla campagna, fosse sceso sul fiume, sotto il ponte, per un urgentissimo bisogno corporeo.
Mentre il malcapitato provvedeva a lavarsi le mani e a rimettersi in ordine, si sentì intimare l’alt da “Su Spadu”, apparso improvvisamente col fucile in mano. Il ricco possidente venne condotto in caserma per gli accertamenti e denunciato per pesca di frodo. Seguì poi la condanna. 
Per fortuna dei pescatori professionali e dilettanti, non solo di Riola, ma di tutta la zona, questa schiavitù finì per l’intervento della Regione Autonoma della Sardegna, che, con apposita legge emanata nella seconda metà degli anni ’50 (la legge regionale n. 39 del 1956) e successivamente con decreto del Presidente della Regione del ‘65, abolì i diritti esclusivi di pesca in acque interne; ma, soprattutto, per le lotte dei pescatori che si batterono durante tutti gli anni ‘60 e ‘70 perché la legge fosse applicata. 
La Regione, solo dopo una lunga vertenza con i proprietari, riscattò il famoso compendio, dove ora lavorano centinaia di pescatori, inquadrati in cooperative facenti parte del Consorzio che ha in affidamento  la gestione dello stesso compendio ittico.

Testo di Giuseppe Mocci - Tutti i diritti riservati.



mercoledì 23 novembre 2011

STORIA DELLA SARDEGNA: L’INSURREZIONE DEL 28 APRILE 1794




Il pensiero del Pitzolo espresso all’amico si divulgò in città. Il Viceré, convinto dell’esistenza di un piano di insurrezione, tendente ad espellere tutti i piemontesi, fece arrestare gli avvocati Vincenzo Cabras ed Efisio Luigi Pintor Sirigu, suo genero. 
“Per errore invece di Efisio Luigi venne catturato il fratello Bernardo. Efisio Luigi poté cosi percorrere a cavallo le vie del quartiere Stampace sollecitando il popolo ad insorgere e facendo suonare a martello le campane della chiesa di S. Anna. 
Dopo Stampace insorsero anche i quartieri della Marina e di Villanova, quindi il popolo, dopo aver liberato i forzati, abbattuta la porta del Castello, chiese la liberazione dei due arrestati e ne ottenne la consegna”. 
In seguito ad alcuni scontri armati contro “le truppe continentali e svizzere” i rivoltosi, “a coronamento della vittoria”, arrestarono “tutti i militari e gli impiegati piemontesi, savoiardi e nizzardi, e le loro famiglie, che in un primo momento vennero ristretti in diversi conventi.” . 
I cagliaritani, ancora oggi, ricordano, orgogliosi, la famosa parola d’ordine imposta alle persone sospettate di essere continentali: “nara scisciri”. Quando la persona fermata non rispondeva con la pronuncia giusta cagliaritana, gli intimavano l’alt, dicendogli: “toccheti a Santa Rosalia”, cioè venivano reclusi nel convento di Santa Rosalia. 
“Nei giorni successivi le 514 persone arrestate a Cagliari vennero imbarcate, viceré compreso, su alcune navi appositamente noleggiate e fatte partire per il continente”. Questa insurrezione “fu un momento di vera e sentita unità: è per questo che il 28 Aprile è stato dichiarato, con apposita legge regionale, FESTA del POPOLO SARDO”. 
Dopo la cacciata dei piemontesi da Cagliari e da tutta la Sardegna, il governo dell’isola venne assunto dalla Reale Udienza, così come voleva la prassi durante l’assenza del Viceré. Il successo dell’insurrezione costrinse il governo di Torino ad accettare le rivendicazioni dei sardi, fatte, a suo tempo, dagli Stamenti con le famose cinque domande; non solo ma si adoperò anche, tramite l’arcivescovo di Cagliari Monsignor Melano “a sollecitare direttamente dal re l’amnistia per i fatti del 28 aprile 1794 e del luglio 1795”. 

GIOVANNI MARIA ANGIOY

Giovanni Maria Angioy - Ritratto

Egli nacque a Bono, nel Goceano, nel 1751 da una nobile famiglia. “Conseguita la laurea in diritto civile e canonico, si avviò alla libera professione facendo la pratica legale… dopo partecipò al concorso per la cattedra di Istituzioni civili e lo vinse”. 
Contemporaneamente all’insegnamento svolse le mansioni di giudice della Reale Udienza, la massima magistratura isolana, e di assistente del reggente la Reale Cancelleria, la più importante carica dopo quella di viceré. 
“Con l’arrivo del nuovo viceré, Filippo Vivalda, si manifestarono a Cagliari “profonde divergenze tra i progressisti e i moderati”, i partiti che avevano guidato l’insurrezione del 28 Aprile, in merito alla nomina di alcuni esponenti sardi ad alcune importanti cariche “decisa in modo unilaterale dal Governo di Torino”; nomina non concordata con le autorità sarde. In modo particolare, non vennero accolte favorevolmente le nomine di Girolomo Pitzolo e del Marchese della Planargia, perché i due non si sarebbero attenuti al rispetto delle proposte avanzate dalla Commissione degli Stamenti inviata a Torino; quindi i due vennero ritenuti traditori. 
Il contrasto fra i partiti andò accentuandosi anche a causa del comportamento ambiguo del vicerè Vivalda, sospettato di adoperarsi in favore del partito dei moderati; comportamento che avrebbe provocato i progressisti o giacobini, come li chiamavano i moderati. Si arrivò quindi all’arresto (1795) di Girolomo Pitzolo e del Marchese della Planargia, che verranno, poi, “uccisi, a furor di popolo, secondo i giacobini, ed invece da emissari dei giacobini, secondo i moderati”. 
Intanto andava accentuandosi il malcontento degli abitanti delle ville infeudate; gli stessi feudatari, strano, erano disposti a fare qualche concessione ai vassalli, come la sospensione della riscossione dei tributi feudali. I feudatari sassaresi invece erano contrari. Il Viceré si dichiarò favorevole alla proposta dei feudatari cagliaritani, che risultava gradita anche al partito dei progressisti. 
Il Governatore di Sassari, Santucio, invece, ordinò: “che non venissero eseguiti, senza la sua autorizzazione, gli ordini del Viceré e della Reale Udienza”. A questo atto di ribellione, il Viceré decise di intervenire, emanando “un Pregone nel quale si sconfessava il Governatore Santucio”. 
Si nominò anche una Commissione, che pubblicò nel sassarese il Pregone del Vicerè e, contemporaneamente, sollecitò la ribellione degli abitanti delle Ville contro i feudatari. 
L’effetto fu immediato, insorsero infatti contro gli abusi feudali alcune Ville, venne “assalito e distrutto il palazzo del feudatario pazzoide Antonio Manca, duca dell’Asinara”. Le stesse Ville “strinsero un patto col quale, mentre confermavano la loro fedeltà al re, esprimevano la volontà di non riconoscere più l’autorità del duca dell’Asinara e di riscattare il feudo. Patti analoghi furono stipulati in molte altre Ville”. Intanto venivano uccisi il Pitzolo ed il Marchese della Planargia. 
“Alla fine dello stesso anno migliaia di contadini armati assediarono Sassari e la guarnigione fu costretta alla resa”. I feudatari scamparono alla cattura, fuggendo, prima, in Corsica e poi in continente. Vennero arrestati il Governatore Santucio e l’Arcivescovo Della Torre, liberati poi per l’intervento del Viceré. Per ristabilire l’ordine nel Sassarese, dove “andava intensificandosi l’agitazione antifeudale” e, soprattutto, “per normalizzare i rapporti tra le due città più importanti dell’isola”, venne inviato “a Sassari, come Alternos vicergio, il giudice della Reale Udienza don Giovanni Maria Angioy”. 
Egli, secondo alcuni storici, sarebbe stato il punto di riferimento dei progressisti/giacobini, partito di cui “facevano parte magistrati, funzionari, liberi professionisti, intellettuali, artigiani, negozianti, popolani e anche molti elementi del clero, i quali nella loro azione trovarono in qualche momento l’appoggio del popolo della città… in lotta contro il feudalesimo. Molti di costoro ripiegheranno poi su posizioni moderate quando Angioy sostenne apertamente le rivendicazioni dei vassalli oppressi”. L’ingresso dell’Angioy a Sassari fu trionfale, “accompagnato da gran parte della popolazione, raggiunse il Duomo, dove era atteso dall’intero Capitolo, che celebrò il Te Deum di ringraziamento”. 
Egli si mise subito al lavoro, “e si acquistò larga popolarità per gli utili provvedimenti adottati. Poiché alcuni suoi amici facevano apertamente propaganda repubblicana, egli venne sospettato di connivenza, per cui si fece molti nemici (a Cagliari soprattutto), che contro di lui organizzarono una congiura”, comunque scoperta e rimasta senza conseguenza. 
L’Angioy “incontrò invece larghissimi consensi nei paesi, per la propaganda antifeudale, tanto che… i rappresentanti di molte comunità lo invitarono a visitare i villaggi per rendersi conto dei problemi ancora aperti”. 
Egli visitò numerosi paesi del sassarese e ai villici “chiedeva se avessero ancora l’intenzione di liberarsi della schiavitù del feudalesimo”. Avuta risposta unanimemente affermativa l’Angioy affermava che era tempo “de bos bogare sa cadena dae su tuiu”. 
Intanto a Cagliari i suoi vecchi amici, ora diventati moderati, venuti a sapere delle intenzioni dell’Angioy lo misero sotto accusa per tradimento e per convincere il Viceré a destituirlo propagarono la notizia che l’Alternos stava organizzando “quanta gente armata potea per andare a Cagliari a dichiarare il Regno Repubblica e farsi riconoscere per capo”. 
L’Angioy, dopo la visita in vari paesi del sassarese, si diresse verso Oristano, soffermandosi a San Leonardo. Qui giunto convocò i macomeresi a Santulussurgiu, però questi non accettarono l’invito “in quanto una circolare del Viceré vietava alle cavallerie di radunarsi senza sua autorizzazione”. 
A Macomer si verificò anche uno scontro armato, che impedì ai seguaci dell’Angioy di entrare nel paese. L’Alternos viceregio si recò a Santulussurgiu, dove fu ospitato dagli amici. Proseguì poi per Oristano, da dove intendeva chiedere un colloquio al Viceré, per esaminare la situazione del Logudoro. Attraversando i paesi di Bonarcado, Seneghe e Riola, diceva ai vassalli che non avrebbero più pagato le tasse ai baroni, ma al re. A “Riola si unirono al corteo molti armati, convocati dal notaio Domenico Vincenzo Liqueri”, sostenitore della politica angioyana.

Oristano - Ingresso a cavallo di Giovanni Maria Angioy

Ad Oristano, dove era seguito da circa 600 persone, l’Angioy venne accolto favorevolmente dalla popolazione e subito scrisse al Viceré “una lettera per informarlo della situazione del Logudoro e per chiedergli un abboccamento con lui… aggiunse che avrebbe atteso in armi la risposta e, in caso questa fosse stata negativa, avrebbe mandato una cospicua deputazione a S.M. il re”. 

Angioy invio al Vicerè Vivalda anche una seconda lettera per comunicargli, tra le altre cose, che intendeva rimanere a Oristano, onde evitare una guerra civile. 

“Appena ricevuta la prima lettera di Angioy”, Vivalda consegnò a don Raimondo Mameli le patenti per poter convocare le cavallerie miliziane dei vari villaggi e muovere contro Angioy”. Il medesimo Vivalda “pubblicò un pregone che accordava un generale condono a quella gente, sedotta e mal consigliata, che aveva preso parte all’insurrezione e, in un altro pregone, prometteva il premio di 1.500 lire sarde a chi presenterà alcuni di essi principali capi e seduttori morti; ed il doppio, cioè tremila parimenti sarde a chi lo presenterà vivo nelle forze della Giustizia dando le prove d’essere stato arrestato, o morto per di lui opera.”. 
Ad Oristano intanto Angioy attendeva la risposta del Vicerè, con la speranza del trionfo della sua causa: cioè non pagare più le tasse ai baroni ma al re.“Ma una lettera inviatagli dall’avvocato Cocco, con allegato il pregone che lo metteva al bando, lo indusse a lasciare Oristano ed a rientrare a Sassari. Inascoltate rimasero le richieste di aiuto rivolte ai villaggi che pure avevano attivamente partecipato al movimento antifeudale, quali Ittiri, Osilo, Florinas, Sorso. 
La vicenda di Angioy in Sardegna giungeva così all’epilogo”. Abbandonato da quasi tutti Giovanni Maria Angioy e i pochi amici rimasti con lui partirono da Portotorres per Genova; “ma colà giunti vennero espulsi perché forestieri. L’ex alternos soggiornò quindi in diverse città italiane”. Ma subito dopo la partenza dalla Sardegna di Angioy, a Cagliari il viceré Vivalda incaricava “il Giudice della Reale Udienza Don Giuseppe Valentino di procedere contro Angioy, Gioachino Mundula, Valentino Fadda di Sassari e gli altri capi d’insurrezione tendente al cambiamento del governo… ed in conseguenza all’usurpazione dei diritti di S.M. … Don Giuseppe Valentino doveva altresì disporre il sequestro e confisca dei beni dell’Angioy, del Mundula e del Fadda, e di quant’altri risultassero capi d’insurrezione”. Al Valentino arrivarono “molte denunce vere e false, sfogo talvolta di rivalità personali… vennero così arrestati anche molti innocenti che rimasero a lungo in carcere”. 
Valentino “adempì all’incarico ricevuto con uno zelo che lo stesso Manno dovette rimproverargli. Furono condannati a morte il medico Gaspare Sini, il commerciante Gavino Fadda, il consigliere civico Sebastiano Dachena, l’avvocato Gavino Fadda, Antonio Vincenzo Petretto e Antonio Maria Carta”. Dopo la morte di Vittorio Amedeo III, salì al trono Carlo Emanuele IV, “che per meglio chiarire la situazione dell’isola e quella personale dell’ex alternos invitò l’Angioy a Torino, garantendogli la liberta personale ed inviandogli anche i soldi per il viaggio”. 
A Torino Angioy venne ascoltato a lungo “dall’avvocato fiscale del regno Luigi Coppa, che lo invitò a soggiornare a Casale, dove avrebbe dovuto attendere le decisioni del re”. I suoi nemici sardi residenti a Torino intanto si attivarono per ucciderlo, ma Angioy, con l’aiuto di due fedelissimi amici, riuscì a sventare le loro manovre con la fuga in Francia; si trasferì a Parigi dove morì il 22 febbraio 1808.

Testo a cura di Giuseppe Mocci - tutti i diritti riservati.

sabato 19 novembre 2011

SABÒRISI ANTÌGUSU IN RIMA




Ita si pàppada in famìllia ?
Ũ bellu prattu de antìllia.
A ca pòttada fortũa
dinãi meda a dònnia fin’e lũa.
No ammàncada su ghisau
impari a pãi affittau.
Òusu cũ chibudda
e isbudiasa s’ampudda.
Pischi frittu manĩu
e ũ antra tassa ‘e bĩu.
Sa minestra cũ tammatigasa esti saboria,
chi no ndi pappu ũ prattu ndi  fatzu ũa mabadia.
Su pedrinzãu a bànnia no dd’arrossu mai
esti troppu bellu a ‘ndi pappai.
I drùcchisi cũ su luccori
'ndi pìganta su mallumori.
Sa crannatza ‘e Arriora esti bella a buffai
ma esti perigulosu po no s’imbriagai.
A tòttusu salludàusu
e bõu appetitu auguràusu.

(di B. Sulas e G. Linzas)

venerdì 18 novembre 2011

STORIA DELLA SARDEGNA - TENTATIVO DI OCCUPAZIONE FRANCESE E AGITAZIONI ANTIFEUDALI




TENTATIVO FRANCESE DI OCCUPAZIONE DELLA SARDEGNA 1792-93 
IL MIRACOLO DI SANT'EFISIO 

Alla fine del 1792 i Francesi iniziarono i preparativi di occupazione della Sardegna; occuparono per prima le isole di San Pietro e Sant’Antioco, come base per le successive operazioni.
Nel mese di Febbraio del 1793, la squadra navale francese entrò nel golfo di Cagliari per intimare la resa. “E poiché il vicerè non volle neppure accogliere gli stessi parlamentari e un messaggio dell'ammiraglio, le navi aprirono il fuoco sulla città”. Dopo un inefficace lungo bombardamento, le truppe francesi sbarcarono nel litorale fra Calamosca e Quartu. Nel frattempo scoppiò un improvviso temporale, “un violentissimo maestrale che imperversò quasi ininterrottamente durante tutto il corso delle operazioni” e che impedì l'appoggio della squadra navale; per cui, dopo “modeste azioni, da una parte e dall'altra”, l'operazione di occupazione fallì e le truppe francesi dovettero reimbarcarsi.

la difesa di Cagliari nel 1793 - opera di Quinto Cenni (tratto dal sito www.cmsc.it)

Per i cagliaritani, la città venne salvata dal loro Santo protettore: Sant’Efisio.
I francesi tentarono di occupare anche l’isola di La Maddalena, ma anche qui vennero sconfitti dall’eroico Domenico Millelire, comandante di una lancia cannoniera. A questo tentativo di occupazione partecipò anche il futuro imperatore dei francesi, Napoleone, quando era giovane capitano.
“La notizia della vittoria dei sardi contro i nemici del trono e dell’altare venne accolta con viva soddisfazione da tutta l’Europa conservatrice, ancora commossa dalla notizia della condanna a morte e dell’esecuzione di Luigi XVI”.


LE IDEE FRANCESI E LE AGITAZIONI ANTIFEUDALI 

Le idee francesi (i principi della rivoluzione) ebbero una scarsissima penetrazione in Sardegna, isola sperduta al centro del Mediterraneo e popolata al novanta per cento da analfabeti, contrariamente a quello che era avvenuto nella penisola.
Anche se tra le masse popolari la propaganda a favore della Francia era sostenuta da notizie spesso vaghe e imprecise, venne accolta favorevolmente e con un certo entusiasmo la notizia dell’abolizione dei diritti feudali. Infatti, per l’abolizione dei diritti feudali si verificarono manifestazioni in alcuni comuni del Sassarese nel 1793, ma già nel 1789 si erano verificate le prime manifestazioni a Thiesi, Solanas e Donigala.
L’occasione per far esplodere in tutta l’Isola il malcontento contro la Monarchia assoluta dei Savoia e per l’abolizione anche nell’isola del feudalesimo si verificò clamorosamente dopo la vittoria contro i francesi.
Successe che il viceré Balbiano, lodando tutti quelli che avevano contribuito a sconfiggere i francesi, “inviò a Torino un elenco di nomi, con le attestazioni dei meriti e le proposte di promozioni e ricompense”. Nell’elenco erano compresi anche alcuni sardi, come il marchese di Neoneli e Gerolomo Pitzolo “uomo intraprendente, fervido e ardito, il cui piano di difesa ch’egli ha formato… può chiamarsi la chiave di questa capitale (Cagliari), farebbe onore ad un generale”. Queste le motivazioni del viceré in favore del sardo Pitzolo. Torino invece concesse promozioni, decorazioni e aumenti di stipendio “a tutti gli ufficiali piemontesi e perfino ai sergenti” che avevano partecipato alla guerra e ad altri “che non erano stati proposti dal vicerè… ma nessuno dei Sardi che contribuirono alla vittoria ebbe ricompense, neppure il Pitzolo… Premiare i piemontesi significava attribuire loro la vittoria, e incominciare in tal modo a svalutare il contributo dei Sardi, che continuerà ancora in seguito”.
Questo ingiusto, ingrato ed offensivo provvedimento del re provocò la richiesta agli Stamenti, da parte “degli esponenti del clero, della nobiltà e delle città di Cagliari, Iglesias, Oristano, Bosa, Alghero, Sassari e Castelsardo” - le famose città regie - di chiedere, formalmente, tra cinque precise domande, “l’assegnazione ai sudditi sardi di tutte le cariche civili e militari dell’isola, esclusa quella di viceré e l’osservanza delle leggi fondamentali del Regnum Sardiniae”.
Le cinque domande “erano nella sostanza la rivendicazione dell’autonomia statuale del Regnum Sardiniae, che aveva nelle leggi fondamentali, delle quali si sollecitava il rispetto, la sua Costituzione; ciò significava da parte degli Stamenti prendere posizione contro il regime assoluto instaurato dal Piemonte, come del resto dalla Spagna”.
Per illustrare al re il significato delle cinque domande venne inviata a Torino una commissione, composta da componenti i tre Bracci degli Stamenti.
 “All’accoglimento sollecito ed integrale delle cinque domande” si oppose il ministro Graneri, “influenzato dal viceré Balbiano e dai feudatari”. In quella occasione “Girolomo Pitzolo scrisse una lettera ad un amico cagliaritano che nulla si sarebbe ottenuto finché i piemontesi fossero rimasti in Sardegna.” .

Testo a cura di Giuseppe Mocci - Tutti i diritti riservati

domenica 13 novembre 2011

"LE GARE DELLE CARRETTE" - di Giuseppe Mocci



Fino agli anni '50 del secolo scorso, i riolesi, in occasione delle feste campestri di Santa Caterina di Pittinuri e di San Giovanni di Sinis, usavano svolgere delle gare di corsa con le carrette.
A queste feste i riolesi hanno sempre partecipato numerosi. In maggioranza erano agricoltori, che, all’epoca, possedevano tutti una carretta. Con questo mezzo essi, raggruppati in comitive diverse, carichi di provviste, raggiungevano le due località, con grande allegria e divertimento.

Santa Caterina di Pittinuri

Questa località dista circa quindici chilometri da Riola e si trova sul mare.
Oggi Santa Caterina è una frazione di Cuglieri. In età medievale, tra l’800 e il 1000 doveva essere una piccola villa, vicina alla città di Cornus.
A causa delle incursioni e saccheggi degli arabi, gli abitanti di questa villa, come quelli della città di Cornus, si trasferirono a Gurulis nova, Cuglieri.
Pare che il primo nucleo della chiesa sia stata costruita tra il V e il VI secolo d.C.; forse doveva essere un oratorio. In quel periodo in Sardegna le piccole chiese campestri erano numerosissime e alcune vennero poi ingrandite, tra il X e il XIV secolo, con forme architettoniche di valore: le belle chiese romaniche.
Nel Comune di Cuglieri ci sono, ancora oggi, altre due chiese campestri: San Lorenzo e Santa Imbenia
Oggi la chiesa dedicata a Santa Caterina di Alessandria viene aperta di sovente, data la grande dimensione raggiunta dal centro abitato, diventato luogo di villeggiatura estiva.
Tanti anni fa, invece, questa chiesa veniva aperta al culto solo un mese prima della festa (la seconda domenica di Maggio) per le novene, alle quali partecipavano numerosi i Cuglieritani, a seguire gli Scanesi, gli abitanti della Planargia e i Riolesi.
Non possedendo automobili, allora, i praticanti le novene  (i cuglieritani soprattutto) si trasferivano sul posto in case di proprietà, costruite per soggiornavi sia durante le vacanze estive, sia durante i periodi in cui venivano effettuati i lavori invernali sui numerosi tancati.
La maggioranza dei riolesi si recava a Santa Caterina il giorno della festa e parcheggiava le carrette nella piazza sottostante la chiesa.

Chiesa di Santa Caterina di Pittinuri
Santa Caterina - 1930 circa - collezione Bullegas Cagliari - viaggio in sardegna Alinari

Come di consuetudine, le donne andavano tutte in chiesa per la messa solenne, mentre gli uomini si scambiavano le visite, di carretta in carretta, con abbondanti libagioni.
A pranzo si formavano gruppi composti da numerose persone, distinti per paese di provenienza, e si mangiava tutt’insieme, all’aperto, formando un’unica grande mensa.
Di pomeriggio i componenti le varie comunità organizzavano balli e negli intervalli, come in una sorta di gara, offrivano il loro vino migliore.  Dalla comunità riolese veniva offerta la vernaccia, che risultava sempre vincente.
Per i riolesi, la festa era anche l’occasione per la contrattazione della legna con i cuglieritani, notoriamente proprietari di estesi tancati ricchi di cespugliati; la famosa macchia mediterranea, dalla quale si ricavava la legna da ardere.
Alla fine della festa, un’ora prima del tramonto, i riolesi organizzavano il ritorno in paese in due gruppi di carrette: uno era composto, in maggioranza, da donne e bambini, l’altro solo da uomini.
Quest’ultimo gruppo si misurava in una spericolata gara di velocità con le carrette, da Santa Caterina alla salita di Pischinappiu. Vinceva la gara chi transitava per primo sulla predetta salita, pericolosissima per la presenza di curve e controcurve.
Quasi tutti gli anni a Pischinappiu, sull’antico tracciato, qualche carretta finiva fuori strada e il carrettiere o qualche accompagnatore finiva anche all’Ospedale di Oristano, ma sempre senza gravi conseguenze.
Ricordo che nel 1946 vinse la gara Giacinto Carrus, un giovane aitante e spericolato, con un cavallo straordinario. La gara fu avvincente: nel tratto più pericoloso della strada, Carrus, lanciato nella corsa, superò un concorrente mandandolo fuori strada. Per fortuna senza che costui subisse danno alcuno, poiché fu scaraventato sopra un macchione di lentischio che attutì la caduta, mentre gli altri accompagnatori erano riusciti a saltare dal carro giusto in tempo.

San Giovanni di Sinis

Foto d'epoca: Case a San Giovanni di Sinis 

A San Giovanni di Sinis i riolesi andavano in villeggiatura nel mese di Agosto, una settimana prima della festa dedicata a San Giovanni (29 Agosto). Alcuni si trattenevano fino alla prima domenica di Settembre per partecipare anche alla festa di San Salvatore, località vicina, a pochi chilometri di distanza.
I riolesi non erano molti, perché la maggioranza usava villeggiare a Su Pallosu. Essi si univano ai nurachesi, che invece erano tanti.
Con i nurachesi, come è notorio, i riolesi hanno sempre avuto un ottimo rapporto (contrariamente a quanto accadeva, stranamente, con i baratilesi). Con loro, infatti, si festeggiava e si gareggiava con le carrette il giorno del rientro dalla festa.
A proposito della storia dei due paesi e dei loro rapporti, pare che Riola (Arriora) sia sorta dopo Nurachi, che già molto prima del 1000 era una Villa (Bidda) civilmente organizzata e con chiesa parrocchiale: San Giovanni Battista, allora una piccola cappella in stile gotico (VI secolo d.C).
Si dice anche che Riola era costituita, allora, da tre piccoli insediamenti, sparsi nelle campagne vicine a Nurachi, intorno alle piccole chiese campestri (oratori) di Santa Corona e di Sant’Anna, e che in queste piccole chiese officiasse il parroco di Nurachi.
A cavallo tra gli anni venti e trenta del secolo scorso, alcuni nurachesi costruirono a San Giovanni di Sinis le loro seconde case, proprio di fronte e a fianco della chiesa paleocristiana  (chiesa che, allora, ricadeva nella giurisdizione ecclesiastica di Nurachi).
Essi, molto più devoti dei riolesi e dei cabraresi, perciò costruirono quelle abitazioni che ancora oggi si trovano di fronte alla predetta chiesa.
A conferma degli ottimi rapporti con i vicini nurachesi, sta il fatto che anche un riolese costruì la sua seconda casa proprio in mezzo alla fila dov’erano esclusivamente le loro abitazioni: era il Cavalier Giuseppe Zoncu.
La maggioranza dei villeggianti - riolesi e nurachesi - che arrivava a San Giovanni con carri e carrette, si accampava lungo la strada, attaccandosi alle prime case, disposti a schiera.

Foto d'epoca: Nurachesi in festa a San Giovanni
Chiesa paleocristiana di San Giovanni di Sinis

L’accampamento, per coloro che vi dovevano trascorrere almeno una settimana, era formato da capanne realizzate con pali e canne e rivestite di frasche; per quelli che vi si erano recati solo per uno due giorni (vigilia e festa), l’accampamento, invece, era costituito dai carri e carrette con le stanghe al cielo che venivano coperte da tende e lenzuola per proteggersi dal sole di giorno e dall’umidità di notte.
Gli inquilini delle capanne costruivano, con identico materiale, un gabinetto, posto sul retro delle stesse, ove veniva sistemato anche il pollaio, preziosa riserva di carne (allora non esisteva il frigorifero).
I villeggianti delle case e delle capanne, in perfetta armonia, trascorrevano la settimana nel seguente modo: la mattina al mare a prendere il sole e a fare i bagni (le donne facevano il bagno con lunghe camicie bianche o nere e in una spiaggia diversa, a loro riservata, sorvegliata anche da un ragazzino), mentre di pomeriggio, dopo la pennichella, a ballare, cantare e bere.
Di sera, invece, le donne, i vecchi e i bambini andavano in chiesa, mentre gli uomini continuavano la festa con canti e libagioni varie, in compagnia anche degli amici venuti solo per il giorno della festa.
Al termine della giornata di festa, i villeggianti con le carrette organizzavano la gara di velocità, gara che iniziava un’ora prima del tramonto, con partenza da San Giovanni e arrivo al primo ponte della Peschiera Pontis.
La competizione era veramente interessante e pericolosa, perché non si svolgeva lungo una strada, come quella di Santa Caterina, ma lungo vari sentieri dissestati che portavano quasi tutti a Cabras, salvo alcuni che invece portavano negli stagni vicini o, addirittura, al mare.
Spesso arrivava al traguardo, in tempo utile, solo la metà dei concorrenti, perché l’altra metà si era persa nei vari sentieri.
Nel 1939 vinse la gara il riolese Gabriele Marini, un ventenne ardimentoso alla guida di un puledro appena domato.
Naturalmente alla fine della gara, in presenza di tanta gente giunta ormai sul posto, si procedeva ad applaudire il vincitore e alla solita libagione. Veniva offerto vino e amaretti a tutti, compresi i passanti occasionali.
Solo i cabraresi rimanevano indifferenti ed è notoria anche la loro avversità alla festa organizzata dai Nurachesi.

Testo di Giuseppe Mocci 

Alcune foto d'epoca sono tratte dal bel libro di Pasqualino Manconi "Nurachi e la sua storia. Appunti di viaggio nella memoria".




Chiesa di San Giovanni di Sinis: la “guerra” tra i Cabraresi e Nurachesi; note storiche


Al riguardo si cita un brano del Dizionario Storico di Vittorio Angius, in favore dei nurachesi:
"… Egli è forse stato che il territorio di Nurachi avesse limiti più estesi che al presente… e rispetto a quella (chiesa) di San Giovanni di Sinis è assai probabile che gli abitanti di quel paese siansi ritirati a Nurachi, che era il luogo più sicuro nelle repentine invasioni dei barbari, perché il Parroco ebbe diritto su quella chiesa che era stata dei novelli suoi parrocchiani, e il Comune (di Nurachi) la proprietà sul territorio dei loro ospiti, che fu poi usurpato o legittimamente acquistato dal Comune di Cabras”. 
Si cita, ora, in favore dei cabraresi, un particolare molto importante; cioè l’intervento di restauro da parte dei cabraresi nel 1838, senza l’autorizzazione del parroco di Nurachi. Infatti la chiesa, antichissima e rimasta per tanto tempo senza manutenzione, andò in rovina; per un decennio essa era diventata un ricovero di pastori e animali vari. 
Dopo l’intervento di restauro, i Cabraresi ottennero dal Vescovo il permesso di benedirla e di festeggiare San Giovanni, con esclusione del parroco di Nurachi; il parroco di Cabras ritirò le nuove chiavi della chiesa restaurata e contenente la statua del Santo. 
Subito dopo ebbe seguito una controversia legale presso la Curia vescovile di Oristano e altre ne seguirono fino al 1948. 
La prima risale al 1840, il cui esito fu favorevole al Parroco di Nurachi che rientrò in possesso della chiesa, nella quale poterono celebrare la festa in onore dei santi Agostino e Giovanni Battista. 
Anche l’Angius, parlando di Nurachi, afferma che “la parrocchiale di Nurachi ha giurisdizione per antichi titoli,… sopra la chiesa di San Giovanni di Sinis”. 
Al riguardo, sempre sulla controversia con Cabras, il nurachese Pasqualino Manconi, nei suoi appunti di viaggio, racconta: 
“A questo punto s’inserisce un episodio rimasto sempre vivo nel ricordo del popolo di Nurachi. In un anno non precisato ma lontano nel tempo, i Nurachesi, di ritorno dal Sinis dopo la celebrazione delle consuete feste, furono sorpresi da un temporale nell’attraversare Cabras… Nella confusione generale il simulacro di San Giovanni Battista fu introdotto nella chiesa di Cabras, mentre quello di Sant’Agostino fu messo al riparo in una casa privata. Cessato il predetto temporale, il simulacro di San Giovanni non fu restituito ai Nurachesi ed i Cabraresi con quel gesto si guadagnarono la non felice nomea di “Crabarissu fura santus”. 
La guerra, se così possiamo chiamarla, tra le due comunità, continuò fino al 1948. Ma già nel 1939 vigeva un accordo, con il benestare della Curia, che prevedeva il festeggiamento di Sant’Agostino e di San Giovanni da parte delle due Comunità e nello stesso giorno. 
Infatti, quell’anno, i nurachesi arrivarono in processione da Nurachi con Sant’Agostino, mentre i cabraresi arrivarono con San Giovanni. 
Il punto d’arrivo e da dove poi partirono in processione fino alla chiesa, si trovava all’ingresso del villaggio in un punto determinato sul terreno da un grosso roccione. Da qui, dietro a ogni santo, partirono in processione i fedeli; i Cabraresi dietro il simulacro di San Giovanni, alla destra, invece i Nurachesi dietro il simulacro di Sant’Agostino, a sinistra. 

Testo a cura di G. Mocci

domenica 6 novembre 2011

RIOLA SARDO – RITORNA L’APPUNTAMENTO D’AUTUNNO CON "SAPORI ANTICHI"

Siamo giunti a Novembre e una nuova edizione di Sapori Antichi  è dietro l’angolo. La terza edizione della rassegna gastronomica di piatti poveri della tradizione Riolese, infatti, è prevista per sabato 19 Novembre, a partire dalle ore 17,30.
Nata in sordina nel 2009 - organizzata a cura della Proloco di Riola Sardo - la manifestazione è diventata un appuntamento tradizionale d’autunno che si rinnova di anno in anno; un'occasione per riscoprire i sapori di un tempo e rivivere le vie del centro storico, in un clima di piacevole convivialità.
Il percorso gastronomico, in particolare, si snoderà lungo le vecchie stradine ed i viottoli del centro, dove,   presso otto portoni di antiche abitazioni, si potranno degustare le pietanze ed i dolci tradizionali accompagnati dai vini dei produttori locali (tra questi anche la pregiata vernaccia riolese). 

locandina della manifestazione
 
Le tappe del percorso ed i piatti che verranno serviti sono i seguenti:

Portone n. 1 via Petrarca (portone Alberto Loche) – “Antìllia” (lenticchie);
Portone n. 2 via Marconi (portone Ivana Bellu) - “minestra cũ tammatigasa” (minestra con pomodori);
Portone n. 3 via Dante (portone Anna Maria Sanna) - “pedrinzãu a bagna” (melanzane al sugo);
Portone n. 4 via Sant’Anna (portone Rossella Pili) - “pudda a ghisau” (pollo al sugo di pomodoro);
Portone n. 5 via Depretis (portone Liliana Bellu) – “pischi frittu” (frittura di pesce);
Portone n. 6 via Regina Elena (portone Abramo Corona) - "chibudda cũ òusu" (cipolle con uova);
Portone n. 7 via Umberto I (Liquoreria Lucio e Nunzia) – liquore di finocchietto e dolce;
Portone n. 8 via Umberto I (Panificio Zoncu) – "padruasa; ziddĩasa; pillu frìttusu" (dolci vari).

Piantina con percorso di Sapori Antichi (per ingrandire clicca sull'immagine)

La manifestazione sarà arricchita dalla mostra di pittura di Giantore Carta e, come al solito, dalla presenza degli artigiani che esporranno le loro straordinarie produzioni (cestini, ceramiche, lavorazioni in pietra, ecc.).

Tziu Natalĩu Cadõi, all'opera durante Sapori Antichi 2009

Anche quest’anno, inoltre,  non mancheranno la musica e i canti di Maurizio Mocci e dei suoi amici che allieteranno la serata.
Un particolare ringraziamento va a tutti coloro che sostengono in diversi modi la Proloco e che contribuiscono alla realizzazione dell’evento.

Link dell'evento su facebook (clicca qui)

(g.l)

Storia della Sardegna - Guerra di successione Spagnola e cessione della Sardegna ai Savoia

LA GUERRA DI SUCCESSIONE DI SPAGNA 

Con la morte di Filippo II, nel 1665, l’impero spagnolo comincia lentamente la disgregazione interna.
I discendenti di Carlo V e di Filippo II, inetti e dissoluti, non si dimostrarono all’altezza del loro compito. Infatti, alla morte di Carlo II, senza lasciare eredi, i parenti prossimi e lontani, appartenenti alle due più grandi potenze d’Europa (la Spagna e la Francia), diventano tutti candidati.
“La guerra di successione di Spagna (la guerra dei trent’anni) ebbe inizio con la designazione al trono del nipote di Luigi XIV, Filippo duca d’Angiò; e fu soprattutto la Francia a sopportarla, contro la quale si formò la coalizione anglo-imperiale cui si unirono l’Olanda e i principi tedeschi. Tra sconfitte e voltafaccia, vi si era aggregato anche il duca di Savoia, lo scaltro e ambizioso Vittorio Amedeo”.

Vittorio Amedeo di Savoia

Con vittorie e sconfitte da una parte e dall’altra negli schieramenti, la stanchezza generale e gli enormi sacrifici in denaro e in vite umane “convinsero finalmente i belligeranti” a un accordo, che “si ottenne dopo una serie di trattati” (Utrecht, Rastad, Baden e Londra, dal 1710 al 1720). 
Con il Trattato di Londra la Sardegna fu assegnata al Duca Vittorio Amedeo di Savoia, “che l’accettò a malincuore, facendone prendere possesso da un viceré, …, senza neppure degnare di mostrarsi… ai sudditi. 
Forse fu alterigia e insieme disprezzo verso i Sardi e la loro isola, nonostante fossero dono della divina provvidenza… Per grazia di Dio, si autoproclamò, infatti, Vittorio Amedeo II re di Sardegna, non già per volontà della Quadruplice Alleanza”.
Il trattato di Londra imponeva a Vittorio Amedeo lo status quo del regno, cioè “conservare infatti i benefici non già alla Sardegna e ai Sardi, bensì ai feudatari filo-spagnoli e al clero”. 


I PRIMI DIECI ANNI DEL DOMINIO SABAUDO

“Poco dopo il suo arrivo a Cagliari, il viceré di Saint Remy aveva fatto al re un primo quadro scoraggiante sullo stato in cui si trovava la Sardegna”. Egli praticamente aveva fatto un elenco “di tutti i mali e le miserie che si erano accumulati e stratificati nei secoli del dominio spagnolo”.

Barone di San Remy

Prima di tutto aveva evidenziato come “piaga cancrenosa” il feudalesimo, ormai decaduto “che prosperava sulla miseria delle popolazioni… paralizzava, infestante parassita, il naturale sviluppo e il progresso, soprattutto dell’agricoltura".
“Anche il clero, numeroso, ricco e privilegiato, gravava passivamente sull’economia del regno, accrescendo le ristrettezze delle popolazioni e intralciando l’opera del governo.”.
Il Parlamento, cioè i famosi tre bracci rappresentanti tutta la Sardegna, non era stato più convocato, ma continuava ad avere notevole peso. Scriveva un altro viceré al sovrano che in Sardegna “le leggi ed i privilegi sembrano fatti apposta per distruggere il povero: tale è la legge che dà ai feudatari la proprietà dei territori ed il diritto dei comandi personali; tal è l’uso che si paghi la decima dei frutti interi alla Chiesa, …, tale è il privilegio o costume che i nobili ed ecclesiastici siano esenti dai diritti di dogana… Nessuna meraviglia perciò, se il banditismo era tanto diffuso, … specie se riuniti in bande anche numerose… Il banditismo era alimentato per buona parte dai ribelli ai soprusi feudali e alla giustizia vessatoria e corrotta”.

cattura di banditi in Sardegna (illustrazione)

Famosa l’azione energica del viceré, Marchese di Rivarolo, che “con numerosa truppa e metodi drastici nella repressione e contro i favoreggiatori, diffuse il terrore con esecuzioni capitali, riempiendo le prigioni”. Con questi metodi il Rivarolo riuscì, per alcuni anni, a porre un po’ d’ordine; era tanto severo che arrivò a proibire ai Sardi di portare la barba e “con un pregone ordinò che si radessero”.
Comunque si possono rimproverare gli eccessi ma va riconosciuto al Rivarolo il merito di “aver stremato il banditismo, sì che per alcuni anni parve quasi estirpato; ma per le deplorevoli condizioni in cui rimaneva la Sardegna, il banditismo riprese come prima e continuo a imperversare” fino a tutto il 1800.
“I mezzi di viabilità erano pressoché inesistenti: c’erano due sole strade principali, quella verticale da nord a sud e quella litoranea che collegava le antiche città marittime che più non esistevano. Le due strade furono trascurate durante il periodo giudicale. Ma, senza più manutenzione nei quattro secoli di dominio spagnolo, ne era rimasta poco più che il tracciato. E mancavano anche i ponti”.

IL PERIODO DELLA RIVOLUZIONE FRANCESE

“Fino al 1799, anno in cui, cacciati dal Piemonte, i Savoia si esiliarono in Sardegna (ospiti del Marchese di Suni, dei Manca di Villaermosa, proprietari di una lussuosa villa lungo la costa cagliaritana: Villa d’Orri), nessuno di loro aveva mai posto piede nell’isola; cingevano la corona di un regno che non avevano mai visto. E’ forse, un esempio unico nella storia.”.
Un ministro della reale casa, il Bogino, fece qualcosa in più dei suoi predecessori, “tuttavia neppure lui si discostò dall’indirizzo politico nei riguardi della Sardegna, che fu essenzialmente burocratico e superficiale, senza mai affrontare i gravi problemi dell’isola, ch’erano soprattutto nella sua povera e arretrata economia, lasciandoli anzi insoluti di proposito, per fini politici”.
Di Bogino, i Sardi ricordano solo la sua severità e, un tempo non molto lontano, come malaugurio ai nemici usavano dire “chi ti cùrrada su Bugiu”.
Questo ministro “era del principio che non si dovesse far acquistare alla Sardegna lo stesso grado di civiltà e di prosperità delle altre province di terra ferma” e, secondo alcuni, “di lasciarla nello stato miserabile in cui era stata ereditata dalla Spagna. Certo, fu questa la politica cui si uniformò il Bogino (è sua in proposito l’esortazione al re di non abbellire soverchiamente la sposa perché altri non se ne invaghisse).
Molti decenni più tardi fu lo stesso re, Carlo Alberto, a prendere atto di questa stolta ed ingiusta condotta e a modificare l’atteggiamento della casa Savoia nei confronti dell’isola.
Si dice che quando, prima di salire al trono, aveva visitato la Sardegna “istruito dal Pes di Villamarina, avrebbe esclamato: “Come si può abbandonare questo popolo in tal stato di barbarie, di sconforto, di miseria? Tutti i principi religiosi, morali e di giustizia vi si oppongono”.
Comunque tutti i sovrani che regnarono la Sardegna, da Vittorio Amedeo a Vittorio Emanuele I, tentarono di disfarsi dell’isola “in cambio di qualunque altro pezzo di territorio o di beneficio”.
Con l’evolversi dei principi rivoluzionari francesi in tutta Europa, solo la Sardegna ne rimase immune. La Francia, dopo “aver occupato, quasi senza colpo ferire, Nizza e la Savoia, nel 1792, tentò di impossessarsi della Sardegna che si sapeva sguarnita, con poca artiglieria, nell’impossibilità di organizzare una valida difesa”.


Non solo, ma “nessuno ignorava inoltre come i sardi fossero malcontenti del dominio sabaudo, ciò che avrebbe contribuito a ridurre ulteriormente la possibilità di resistenza.”. Come vedremo il tentativo fallì per l’impreparazione delle truppe francesi, un’accozzaglia raccogliticcia di volontari indisciplinati, male inquadrati e peggio comandati. A Cagliari il viceré Balbiano invocò, invano, il governo di Torino per ottenere rinforzi, “ma dovette infine subire la volontà degli Stamenti… per concertare i mezzi per la difesa. I loro membri, feudatari ed ecclesiastici, erano i più direttamente interessati a difendere l’isola, non già per patriottismo o per attaccamento al sovrano, bensì per i propri interessi, in quanto la vittoria dei francesi avrebbe significato per loro la perdita dei feudi, dei privilegi e fors’anche della libertà”. Nonostante le esitazioni del viceré, i componenti gli Stamenti dimostrarono “uno slancio, mai rivelato in precedenza e neppure in seguito, di propositi guerreschi e di generosi contributi finanziari… l’arcivescovo di Cagliari offrì 12.000 scudi e tutta l’argenteria della cattedrale e personale”.

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