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martedì 15 maggio 2012

Il personaggio: "MAIORCA" - di Giuseppe Mocci

Il signor Maiorca Francesco arrivò a Riola, forse nel 1928, come elettricista capo della Società Elettrica Rio Mannu. Egli era una persona gentile e professionalmente capace, un gran lavoratore; aveva imparato il mestiere in Marina, in una nave da guerra.
La predetta Società portò l’energia elettrica in paese, servendosi dell’opera del signor Maiorca e di operai della zona.
Finite le condotte che portavano l’energia elettrica dalla centrale del Tirso, la medesima Società provvide subito a costruire la cabina elettrica in via Regina Elena e ad allacciare la corrente a chi ne faceva richiesta; naturalmente, a pagamento.
Il primo allaccio è stato quello del Municipio, poi quello delle Scuole elementari e delle numerose vie di Riola.

Francesco Maiorca (1907-1997)

L’avvenimento determinò un’importante e bellissima trasformazione del paese e del costume dei suoi abitanti. Prima, in paese, non si poteva uscire di notte, perché non esisteva impianto di illuminazione pubblica; le case venivano illuminate con candele e/o lumicini vari. D’inverno le famiglie andavano a letto presto o rimanevano davanti al caminetto acceso, per riscaldarsi, conversare e raccontare i famosi còntusu de forredda.
D’estate, quando c’era la luna piena, dopo cena, le famiglie uscivano di casa per godere il bel fresco ristoratore. Con l’arrivo dell’energia elettrica quindi, e grazie al lavoro del signor Maiorca e dei suoi operai, a Riola, nel giro di pochi anni, il cinquanta per cento delle famiglie disponeva della luce elettrica in casa.
Ricordo che nel 1936, quando frequentavo la prima elementare, in casa mia c’era già la luce elettrica. La linea elettrica, che partiva dal contatore, era costituita da un cordoncino bianco, fissato al muro con isolanti di vetro e con interruttori un po’ grossi, ugualmente di vetro. Gli impianti non erano incassati, perché le case erano già costruite e nessuno voleva rovinare gli intonaci delle varie pareti.
I lampadari erano molto semplici; quasi sempre erano costituiti da un piatto metallico smaltato di bianco con una sola lampadina; qualche volta, nelle case dei ricchi, si potevano vedere lampadari con più luci e adornati con fiori di cristallo. Comunque, in ogni casa c’erano ancora le candele e i lumicini di scorta, perché spesso mancava la corrente e si rimaneva al buio.
Allora, gli impianti tecnologici non erano sofisticati come oggi, quindi spesso mancava la corrente. In quelle occasioni la gente imprecava in modo benevolo contro l’incolpevole elettricista e soleva dire: Maradittu sìasta Maiorca!, oppure Maiorca, ischidadindi!”.
Praticamente Maiorca voleva dire luce. Ma il signor Maiorca voleva dire anche acqua. Sì, acqua, perché con la sua operosità si interessò anche degli impianti idrici. L’acquedotto, infatti, fu realizzato nello stesso periodo. Il signor Maiorca portò l’acqua in tante case; era un genio anche in questo campo. Egli, quando smontava dal servizio nella Società, con l’ausilio di un operaio, procedeva ad allacciare impianti idrici, che consistevano in un rubinetto con una vaschetta, di solito collocato in cortile o in cucina.
Ricordo che quando i figli Carmelo e Mario ultimarono le scuole elementari, il signor Maiorca li addestrò professionalmente ed essi divennero bravi elettricisti e idraulici. I due fratelli continuarono il lavoro del padre e, negli anni 1945/60, realizzarono in paese tanti impianti elettrici e idrici (ma ora questi impianti venivano, quasi tutti, incassati nelle pareti).
Il signor Francesco Maiorca è stato per Riola un benemerito; meriterebbe sicuramente l’intitolazione di una via del nostro paese.

Testo di Giuseppe Mocci - Tutti i diritti riservati.

Editing G. Linzas 

mercoledì 8 febbraio 2012

Personaggi: "Il Vice Parroco" - di Giuseppe Mocci

GIOVANNI ANTONIO SECHI (1869/1946), noto PREI SECHI, riolese doc, esercitò nella vita tre mestieri: prete (Vice parroco), insegnante elementare e agricoltore.
Prei Sèchi, in tutti i tre mestieri, è stato bravo, capace e incisivo. Quanti l’hanno frequentato, e in modo particolare i suoi ex alunni, lo ricordano ancora con affetto e gratitudine. Il suo carattere, un po’ bizzoso ma sincero, gli creò molti problemi con la gerarchia curiale e con i parroci dei quali è stato il Vice.  Egli, forte e risoluto, agì sempre con severità, ma con schiettezza. 

foto d'epoca: l'abitazione di Prei Sèchi, in via Trieste

IL PRETE

Prei Sèchi venne ordinato Sacerdote nel 1898; due anni dopo ottenne l’incarico di Vice parroco a Riola. Dopo un anno fu trasferito a Milis, ancora come Vice parroco. Allora l’Italia era una “Gran Pretagna”, come dicevano gli anticlericali; in ogni parrocchia, anche nella più piccola, c’erano almeno due preti. 
Nel 1908 Prei Sèchi rientrò nuovamente a Riola da Milis, sempre come Vice parroco. Nel frattempo, però, conseguì la Patente di Maestro elementare (la Patente diventerà poi Diploma di Scuola Media superiore, abilitante all’insegnamento nelle Scuole elementari fino a pochi anni fa)
Il nostro Vice parroco fu nominato Maestro presso le scuole elementari di Riola e messo fuori servizio ecclesiastico, anche per i dissidi e le denunce reciproche con il Parroco Don Salvatore Caria.
Nel 1923 egli venne nominato ancora Vice parroco di Don Raimondo Scalas, nuovo titolare della Parrocchia di Riola. I due Preti si accordarono in merito ai servizi da offrire ai fedeli. A Prei Sèchi fu permessa, solo e soltanto, la celebrazione della prima messa mattutina (sa missa bassa).
I fedeli, volenti o nolenti, vennero praticamente divisi in due gruppi. Tutti i giorni, Prei Sechi, prima ancora dell’alba, era già in chiesa a confessare i suoi fedeli, poi celebrava la messa bassa, alla fine della quale procedeva con la comunione. La messa allora veniva officiata in sardo. 
Spesso, andava a questa messa anche qualche fedele dell’altro gruppo e con questi, il nostro Vice parroco, usava un atteggiamento un po' ostile. Al riguardo, si diceva che, qualche volta, li rimproverava con parole per niente gentili, specialmente durante la comunione, come:
Aberidda bẽi sa ‘ucca, ca no seu ghettenchidinchi mancu medr’e ua!”. 
L’incarico di Vice parroco, così limitato, gli stava troppo stretto, essendo egli un uomo molto attivo e dinamico. Purtroppo fece il Vice per tutta la vita; egli morì nel 1946. La sua tomba venne eretta ad un lato della cappella. 
Nel 1948 morì anche Don Scalas e anche la sua tomba venne eretta davanti alla cappella e sul lato opposto a quella di Prei Sèchi. Strano ma vero, dopo qualche anno le due tombe s’inclinarono verso il centro della medesima cappella.
Ricordo che quando si andava in cimitero, vedendo le due tombe così inclinate, molti dicevano: Alla... funti brighendi innoga puru!” 



foto d'epoca: Prei Sèchi insegnante, classe anni '20 - tratta dal libro Zenti Arrioresa di Claudio A. Zoncu


SU MAISTU DE ISCOLLA

Fin dal 1908 Prei Sèchi ha insegnato nelle Scuole elementari di Riola e fino al 1945. 
Egli ha insegnato a scrivere e far di conto, come si diceva allora, a diverse generazioni di riolesi. Tutti i suoi ex alunni lo ricordano con stima ed affetto, nonostante i suoi metodi severi e rudi.
Ricordo che, quando frequentavo le elementari, dal 1936 al 1941, la sua aula era attigua alla mia; non si sentiva rumore alcuno. I suoi alunni erano sempre disciplinatissimi, bastava uno sguardo un po’ serio per rimettere in ordine tutto e tutti; aveva sempre in mano una lunga bacchetta di gomma rigida ma la usava molto di rado, non usava mai le mani.
Noi scolari avevamo tutti un timore reverenziale nei confronti di quest’uomo tanto severo, ma tanto capace. Ricordo anche che il medesimo era tenuto in grande considerazione da parte dei suoi superiori, che lo tennero in servizio fino all’età di 76 anni. 
A quei tempi, a Riola e in tutti i piccoli paesi della Sardegna, si parlava in sardo, a scuola come a casa. L’insegnamento della lingua italiana era, quindi, la materia più difficile; per noi sardi era una seconda lingua.
Prete Sechi era preparato pedagogicamente e lavorava molto per i suoi alunni, non trascurava nessuno, neanche il meno dotato. Erano famose le sue lezioni di italiano, o meglio le sue traduzioni dal sardo in italiano. Ricordo al riguardo una lezione, raccontatami da un amico, alunno di Prei Sèchi.
Il Maestro, un giorno, spiegava ai suoi alunni che alcune parole avevano la stessa pronuncia iniziale ma diversa scrittura, come cuore, cucina, quadro, quaderno e così via; alla fine faceva copiare dalla lavagna tutte le parole che iniziavano con la stessa pronuncia, “cu” e “qu”. 
Dopo la spiegazione nelle due lingue egli chiamò alla lavagna il più bravo della classe e il meno bravo. Con il primo tutto andò bene, ma quando si recò alla lavagna il secondo, questi sbagliò tutto. La parola “cuore” la scrisse con la “q” e la parola “quaderno” la scrisse invece con la “c”.
Prete Sechi, infuriato, ripeté la lezione e alla fine invitò il medesimo alunno, che prima aveva sbagliato tutto, a scrivere sulla lavagna le parole "cuore", "cucina", "cucire", "quaderno", "quadro". 
L’alunno scoppiò in un pianto compassionevole e non scrisse nulla. Allora il maestro gli chiese:
Nara, mamma tua itta pòttada asutta de sa ‘unnedda?
L’alunno gli rispose pronto:
Ũ antra ‘unnedda!
Altra domanda del maestro:
Ma asutta de s’atra ‘unnedda, itta pòttada mamma tua?
L’alunno rispose:
Sa camisa!
Prei Sèchi, con tono alterato, fece l’ultima domanda:
Nara, petz‘e tontu, e asutta de sa camisa itta pòttada mamma tua?
L’alunno ammutolì e dopo un po’, piagnucolando, rispose:
No ddu 'ssiu…
A questo punto il maestro, spazientito, urlando disse:
Mamma tua, commente tottu i femmiasa, asutta de sa camisa pòttada su cuu, cuu, cuu… 
'Scriiddu in sa lavagna me italiãu: culo!
E giù una bacchettata sulle spalle del povero alunno. 

AGRICOLTORE 

Prete Sechi possedeva una vigna che confinava col Cimitero; essa era stretta ma lunga e arrivava fino alla palude de “Bass’e Crésia”.
Nella parte paludosa il nostro Vice parroco estirpò le viti e si fece un piccolo orto. Lungo i filari delle viti egli mise a dimora anche alcune piante da frutta. La maggior parte dei lavori erano eseguiti dal medesimo Vice parroco, al quale non mancava mai la frutta e gli ortaggi vari. Naturalmente egli faceva tutto per uso familiare, ma la vigna e l’orto erano per lui uno sfogo, non potendo svolgere altri compiti in chiesa in favore dei compaesani. 
La mattina, dopo aver celebrato la messa bassa, andava sempre a scuola, puntualissimo, e svolgeva regolarmente il programma scolastico con ottimi risultati. Il pomeriggio, fino al tramonto, svolgeva la sua attività agricola.
Si narra che una volta sia entrato nel suo orticello qualcuno, di notte, a pascolare il suo cavallo. Accortosi della violazione del suo podere dalle impronte del cavallo, la notte seguente Prete Sechi montò di guardia alla vigna.
Armato di un lungo bastone, egli si sdraiò sotto una pianta. Dopo la mezzanotte arrivò un giovanotto tenendo per mano il suo cavallo. Aperto il cancelletto, egli entrò nella vigna e, giunto in prossimità della pianta dove era sdraiato il Vice parroco si fermò, liberò il cavallo e si abbassò i pantaloni per andare di corpo.
Il mal capitato non vide nessuno sotto l’albero, ma come s’inchinò sentì un urlo rabbioso, seguito da una poderosa spinta. Atterrito il giovanotto scappò, urlando:
Mamma mia… custa è ũ ànima de su prugadóriu?
Prei Sèchi, allora, gli lanciò addosso il bastone e gli urlò:
Custa, petz’e tontu,  esti ànima caghendi! 
T’appu cannotu Franziscu…
Càstia, no tòrristi prusu a innoga, chi no deu ti 'nchi mandu a s’inferru! 
Il giorno dopo il nostro Maestro raccontò l’accaduto ai colleghi e ai suoi alunni, senza fare il nome del malcapitato giovanotto. Da allora la vigna di Prete Sechi non venne più violata.

Testo di Giuseppe Mocci


Revisione  riolese B. Sulas.

domenica 5 febbraio 2012

"Su Mazzori 'Ochi" - di Giuseppe Mocci

Dagli anni '30 agli anni '50 del secolo scorso viveva a Riola un pensionato dello Stato, un ufficiale dei carabinieri in pensione, un “zibullau” come si diceva allora, che tutti chiamavano Su Mazzori ‘Ochi (Loche). Io non ho mai conosciuto il suo nome di battesimo.
Egli era conosciuto da tutti i riolesi, ma anche da molti agricoltori nurachesi e cabraresi che passavano in via Umberto I per recarsi nel Sinis, zona allora accessibile solo da Riola.

"Su Mazzori 'Ochi"

Il nostro carabiniere usava fare piccole passeggiate, quotidiane, dalle ore undici alle dodici e trenta.
Il tragitto era sempre lo stesso, da casa sua, in via Umberto I, fino alla piazza centrale o poco oltre, nella stessa via, per un percorso massimo di cento metri.
La passeggiata mattutina egli la effettuava sempre solo, dal lunedì al sabato.
La sera si recava nella piazza centrale, sempre in via Umberto, e si fermava di fronte alla fontanella pubblica, alla quale dava le spalle. Da Quella posizione egli poteva vedere tanta gente passargli davanti, perché convergono su quella piazza ben sei vie.
Il nostro “zibullau”, fermo, a gambe divaricate e braccia incrociate sulla schiena, spesso veniva irrorato da qualche cane randagio, dopo una bevutina alla fontanella.
Noi ragazzini osservavamo da lontano quest’uomo, alto e grosso, che imponeva rispetto. Lo ribattezzammo Paracarru ‘Ochi, per il fatto che spesso i cani gli facevano la pipì sulle gambe senza che lui si accorgesse di niente.
Ricordo di non aver mai visto quest’uomo in nessun’altra parte del paese, né l’ho mai visto in chiesa, o in uno dei due Bar, che pure distavano da casa sua una cinquantina di metri.
Una volta al mese si recava all’ufficio postale per ritirare la pensione (ufficio che si trovava ugualmente in via Umberto I).
Durante l’Era fascista, finita nel 1943, non usciva mai di casa. Si diceva che fosse antifascista e per questo motivo congedato anzitempo dall’Arma. Viveva solo e si serviva di una donna per le pulizie, preparargli i pasti e fargli la spesa.
Di sera, un’oretta prima del tramonto, il nostro carabiniere ripeteva la consueta passeggiatina in via Umberto I e si fermava davanti alla predetta fontanella, in attesa dei suoi due affezionati amici, il signor Efisio Zoncu Orrù, poeta e contadino benestante, e il signor Antioco Loche, proprietario e contadino benestante pure lui. 

Riola - via Umberto I

Entrambi gli amici rientravano dal lavoro nei campi una o due ore prima del tramonto. Questo avveniva sempre durante la settimana, perché la domenica e gli altri giorni festivi, ai tre si aggiungeva qualche altro, naturalmente non molto gradito; infatti, spesso l’intruso veniva preso in giro.
Su Mazzori ‘Ochi pontificava, raccontava tutto quello che aveva visto nella mattinata, dilungandosi nel descrivere le persone che aveva notato e chiedendo informazioni sulle stesse.
I due amici lo ascoltavano, quasi sempre in religioso silenzio, e gli fornivano le informazioni richieste.
Praticamente, i tre facevano le pulci a tanta gente, soprattutto agli emergenti e a certe donne alquanto chiacchierate. Si diceva che Su Mazzori fosse al corrente di tutto quello che succedeva in paese.
Sull’esempio di questi tre affezionati amici, piano piano, su questa piazza cominciarono a riunirsi altri gruppi, con la stessa cadenza temporale di Su Mazzori ‘Ochi e compagni.
Oggi i gruppi sostano, comodamente seduti sulle panche, numerosi e a tutte le ore.

Testo a cura di Giuseppe Mocci – Tutti i diritti riservati.



mercoledì 18 gennaio 2012

Storia di un Riolese: Benigno “Il Mecenate” - di Giuseppe Mocci (2a parte)

Elio e Benigno lasciarono il Belgio, partendo da Bruxelles in treno. Arrivati a Parigi decisero di fermarsi in città per qualche giorno; la loro permanenza in questa bellissima città durò invece quasi due anni.
Essi furono subito attratti dalla bella vita; sembravano due parigini allegri e spensierati, completamente soggiogati dalle bellezze artistiche della città e dalla sua vita animata, così come lo furono Ulisse e compagni, ospiti della famosa maga Circe. 
A Parigi i due trovarono subito lavoro in un mulino ed anche un alloggio in un locale adiacente.

Benigno a Parigi nell'immediato dopoguerra, con i colleghi di lavoro

Una domenica d’aprile del 1947, mentre Benigno attendeva un’amica nel quartiere del Trocadéro, venne fermato da una donna di mezza età, con in mano uno strano mazzo di carte. Questa lo invitò a prendere una carta, con un sorriso ambiguo. Egli, curioso, ne prese subito una dal mazzo, la guardò e vide in essa un grande sole con una nuvola al centro.
La maga” (così la chiamò dopo Benigno) prese in mano la carta e chiese del denaro per leggergli il destino. Incuriosito ancora di più, le diede dieci franchi, cosicché la maga, con uno strano rito delle mani, incominciò la lettura:
Rientrerai presto nel tuo paese, farai una grande fortuna, ti sposerai con una ragazza molto più giovane di te, ti uccideranno il primogenito”.
Benigno rimase sconvolto dalla profezia e non disse nulla; si girò da tutte le parti per vedere se arrivava l’amica, poi si volse nuovamente verso la “Maga”: era sparita. 
Il nostro esule pensò, per consolarsi, che la donna aveva fatto quelle previsioni, forse perché le aveva dato soltanto dieci franchi. Arrivata finalmente l’amica, entrarono in un locale ma Benigno non sembrava più lui; infatti, consumato in fretta e furia il pranzo, salutò l’amica, incredula per questo strano comportamento. 
Rientrato nel suo alloggio, non salutò nessuno e si mise a letto; non riuscì a prendere sonno, il suo pensiero era sempre rivolto alla famiglia, a Riola. In paese, prima di partire per la guerra, aveva anche una ragazza, sua coetanea, che non corrispondeva quindi a quella descritta dalla “Maga”. 
Dopo mille pensieri, progetti e varie considerazioni, si alzò: aveva deciso di rientrare in famiglia e sposare la fidanzata riolese. Egli non si presentò in mulino, comunicò la sua irrevocabile decisione al suo caro amico e al datore di lavoro, che ringraziò con affettuosa riconoscenza. Elio cercò di dissuaderlo; ma, come al solito, prevalse la scelta di Benigno, del quale era stato sempre succube.
Il giorno dopo i due amici erano in treno diretti in Italia. A Firenze Elio, con grande slancio d’affetto, abbracciò l’amico e scese dal treno in lacrime; avrebbe voluto far conoscere l’amico e suo salvatore ai suoi. Sì, suo salvatore, perché senza la determinazione di Benigno sarebbe finito in un forno di Dachau. I due si rivedranno poi, per tanti anni, a Riola; anche Elio, infatti, veniva d’estate assieme alla famiglia Scheldman
Arrivato in paese, si verificò la prima previsione della maga parigina; la ragazza, che aveva platonicamente amato, come si usava a quei tempi, si era sposata. 
Il suo impegno, da quel momento, fu dedicato esclusivamente al lavoro, che riprese con grande dedizione e determinazione. Lavorò tanto, prima come allevatore e agricoltore, poi cambiò mestiere; fece l’autotrasportatore e si diede al commercio.
Egli fece fortuna e sposò una bella ragazza, molto più giovane di lui. Si realizzarono, così, due previsioni della maga. 
Benigno incrementò ancora la sua azienda; aprì bottega a Cabras e a Oristano. In questa città costruì un grande palazzo, che gli oristanesi chiamano “il Colosseo di via Sardegna”, proprio per la sua forma e grandezza. Acquistò una casa al mare, a Santa Caterina, per l’amatissima sorella Beatrice, molto religiosa e devota a Santa Caterina; costruì inoltre una grande villa, sempre al mare, a Torre del pozzo, per la sua famiglia. 
Il nostro imprenditore, va detto, pur avendo avuto sempre l’obiettivo di incrementare il suo patrimonio, non è stato mai avido di denaro. Egli, grazie alle sue attività, diede lavoro a tante persone. 

Festa di Sant'Anna anni '50

Benigno amava moltissimo la compagnia ed i festeggiamenti; era un buongustaio, un uomo di mondo!
Già dal suo ritorno a Riola, egli fece il Presidente del Comitato per i festeggiamenti di Sant’Anna e San Martino, per oltre dieci anni consecutivi. 
Trasferitosi ad Oristano, venne nominato Presidente di vari Comitati per i festeggiamenti di molti santi, in città e frazioni. Benigno veniva nominato Presidente, oltre che per le sue doti di eccellente organizzatore, anche per la sua grande generosità: pagava quasi tutto lui. 
Nel 1974 si avverò, purtroppo, anche l’ultima e tristissima previsione della maga parigina; maledetta strega! Al nostro Benigno rapirono il primogenito Luigi, che non fece mai ritorno. A questo tristissimo avvenimento, come si può capire, Benigno e la sua famiglia ebbero a soffrire della più grande sciagura che possa capitare ad un essere umano. 
Data la sua tempra, superò anche questa tristissima sciagura e continuò la sua vita col solito vigore, anche se (come poteva notare chi l’aveva frequentato e ben conosciuto) con un leggero e sofferto affievolimento, sotto tutti gli aspetti. 
Oggi mi piace ricordare l’amico Benigno, il vero Benigno dei tempi felici, Benigno il Mecenate. 
Come la domenica è giorno di riposo, il sabato per Benigno era giorno di festa. 

Benigno in festa con amici suonatori e cantanti 

Egli doveva festeggiare il sabato con i suoi collaboratori e gli amici vicini e lontani (aveva amici da per tutto).
Ricordo una grande festa presso la sua azienda agricola a pochi chilometri da Riola; era un sabato d’Estate inoltrata. Arrivarono un centinaio di amici da tutte le parti della Sardegna, quasi tutti famosi: chi per la poesia sarda, chi per il canto sardo e chi per la bravura nel suonare uno strumento musicale. 
Ricordo, in particolare, l’accoglienza al mio arrivo con un carissimo amico: Sandro Ladu. Questa la scena: appena varcato l’ingresso dell’azienda, ci vennero incontro due giovani donne in costume sardo; una aveva in mano un cestino pieno d’uova sode, l’altra una bottiglia di Vernaccia e un bicchiere; "le offerenti", le chiamai io. Poco distante c’era il padrone di casa, che si avvicinò a noi e con un sorriso smagliante ci salutò. Io, con un uovo in una mano e il bicchiere nell’altra proposi un brindisi e dissi:
Alla salute nostra e soprattutto al nostro mecenate, salute!
Continuai recitando la famosa frase latina: Ab ovo ad malum.
Benigno, non conoscendo il significato della frase, mi pregò di tradurla, dicendo:
Nara Zuseppi, no ast’essi pighendimì in ziru!
Io, subito gli diedi la seguente spiegazione:
Una volta, i ricchi e nobili romani usavano iniziare i suntuosi pranzi offrendo agli ospiti uova sode, come pure, alla fine, offrivano la frutta
Egli allora sorrise, felice; ci prese a braccetto e ci condusse a tavola, aggiungendo:
De frutta ze ndi tenèusu meda e bella! Ajò, andàusu!
Arrivati davanti alla casa, dove erano già arrivati tanti ospiti, ce li presentò; c’erano i più noti e apprezzati cantautori e cantanti in “limba” della Sardegna, e anche un gruppo folcloristico nuorese. A cena, seduti a una lunga tavolata, sotto gli ulivi, eravamo oltre cento persone.
Nel corso della serata si alternavano i canti, le poesie e le belle esibizioni del gruppo folcloristico. Durante uno dei tanti brindisi, accennai appena alla famosa festa della classe 1918, in sa ruga manna nel 1939, naturalmente per esaltare le sue doti. Al ché Benigno mi interruppe gentilmente, dicendomi in sardo:
Zuseppi lassa stai, fueddàusu de crasi!
Sollevando il bicchiere, risposi:
Bene! Brindiamo, augurando a Benigno sempre maggior successo, salute e lunga vita!
Seguirono al mio brindisi fragorosi applausi e auguri di a chent’annos.
La festa continuò fino al mattino successivo. Io, assonnato e un po’ brillo, alle due del mattino, col permesso del padrone di casa lasciai la bella comitiva.
Vi rimase invece l’amico Sandro Ladu, grande conoscitore della Musa sarda; mi riferirono dopo che anch’egli cantò in limba, riscuotendo grande successo.
Raggiunsi il parcheggio, dove trovai due giovanotti che mi misero nell’auto un bel pacco di dolci sardi, ringraziandomi, anche loro, per la partecipazione alla festa e augurandomi buon viaggio.

Testo a cura di Giuseppe mocci - Tutti i diritti riservati

Editing G.Linzas  - Fotografie  famiglia Daga

lunedì 16 gennaio 2012

Storia di un riolese: Benigno “Il Mecenate” - di Giuseppe Mocci (1a parte)

Benigno, classe 1918, non c’è più. Sono finite le feste. 
Durante l’estate di San Martino di questo infelice anno 2011 se ne è andato, quatto quatto, l’amico Benigno, “il Mecenate moderno”.
Lo hanno portato lontano dal suo paese natio, che tanto ha amato e glorificato. Cristianamente è stato seppellito accanto alla moglie, nel cimitero di Seneghe, come prestabilito. 
Io lo ricordo giovane, abile arruolato, con un grande e variopinto fazzoletto al collo, il giorno della festa dei giovani della leva, classe 1918, in Sa Ruga Manna a Riola. Suonava il famoso Efisio Luigi Mocci, virtuoso fisarmonicista.
Era uno spettacolo veramente interessante e bello; i giovani del ‘18 ballavano fra loro, cantando canzoni d’amore e inni di guerra. La gente, accorsa numerosa, fu coinvolta in quella straordinaria festa e, alla fine, tutti intonavano l’inno sardo “Deus Salvi su Re e su Regnu Sardu”, seguito dal doveroso grido fascista “Viva il Duce! Vinceremo! Eja, eja, alalà!”. 
Non rividi per oltre sei anni Benigno; sei anni di guerra, girovago per l’Europa, prima da combattente per il Duce, il Re e l’Italia, poi milite ignoto, combattente per la sua sola sopravvivenza.

Benigno Daga, militare ad Alessandria nel 1939-40

Per apprendere l’arte della guerra fu inviato a Alessandria, da dove lo spedirono in guerra in Albania.
Nel 1943, quando l’Italia fascista ormai sull’orlo della sconfitta firmò l’armistizio, Benigno, assieme a migliaia di soldati italiani, venne fatto prigioniero dai tedeschi e avviato in treno merci nel campo di concentramento di Auschwitz, in Polonia, dove subì l’umiliazione dei lavori forzati, soffrì la fame e conobbe la degradazione umana. 
A seguito di un meticoloso controllo dei suoi documenti, gli aguzzini scoprirono che Benigno aveva un secondo nome: Israele. Nome, questo, datogli alla nascita dal padre, uomo autodidatta ma in possesso di una buona cultura; soprattutto grande conoscitore del nuovo e vecchio testamento, degli antichi filosofi greci e della Divina Commedia (dicono che recitasse a memoria tutto il cantico dell’Inferno). Ispirato da Dante, infatti, egli diede il nome di Beatrice alla figlia; mentre gli altri figli li chiamò: Belisario, Benigno Israele, Nicodemo e Platone
Benigno Israele, quindi, fu considerato dai nazisti un ebreo, subito trattato brutalmente e trasferito nel campo di sterminio di Dachau, in Germania. 
Appena arrivato nel campo, venne messo in fila assieme agli altri prigionieri per il conteggio degli stessi da mandare ai forni (la tragica selezione). 
Quando il comandante tedesco, contando fino a dieci, si fermò davanti a Israele, con l’indice della mano puntato verso di lui, Benigno gridò: Sant’Anna mia bella!” e cadde immediatamente a terra svenuto. Svegliatosi, il nostro si trovò abbracciato da due compagni, che subito lo rincuorarono dicendogli:
Tu avevi visto male, i tedeschi hanno portato via quello che stava alla tua destra. Su, coraggio, andiamo in camerata!

Campo di concentramento di Dachau (foto wikipedia)

Il giorno dopo Benigno Israele venne baciato dalla Dea Fortuna, poiché fu assegnato alla mensa ufficiali, come panettiere. Ciò avvenne a seguito di uno strano interpello collettivo, nel cortile antistante alla camerata. Ai prigionieri schierati in fila, i nazisti chiesero se tra di loro ci fosse un panettiere. Israele alzò subito entrambe le mani e così venne assegnato alla mensa ufficiali. 
Egli, ricordandosi che a casa sua il pane si faceva settimanalmente, e che lui lo sapeva lavorare a dovere, si adoperò tanto in sala lavorazione e anche in altre incombenze. Si accattivò subito la simpatia e la fiducia dei suoi aguzzini. Incominciava molto presto la giornata: serviva il pane fresco a colazione, serviva con la massima cortesia e precisione il pranzo e la cena, rimetteva in ordine ogni cosa. 
Durante il tempo libero Benigno Israele poteva leggere e, soprattutto, studiare la carta geografica dell’Europa che si trovava appesa alla parete della sala da pranzo. 
Il nostro improvvisato panettiere, davanti alla carta geografica, puntava il suo sguardo alla Sardegna e, con le lacrime agli occhi, fermava la sua attenzione su Riola Sardo. 
Non passò molto tempo che, godendo sempre più della fiducia dei suoi custodi, riuscì miracolosamente ad evadere dal campo assieme ad un amico toscano di nome Elio
Avendo studiato nei minimi particolari la strada da percorrere, i due evasi si avviarono in direzione del Belgio, vestiti con abiti civili rubati ai tedeschi; camminavano solo di notte. 
Dopo qualche giorno, Benigno Israele ed Elio riuscirono a varcare il confine e si trovarono in Belgio. Raggianti di gioia e commossi i due si abbracciarono. Subito dopo si trovarono davanti ad una fattoria, recinta da una staccionata, scavalcata la quale, si trovarono davanti ad una stalla vuota; lì attesero l’alba. 
A mattino inoltrato Benigno vide un vecchio che, a fatica, stava radunando le numerose vacche per portarle alla mungitura. Senza nemmeno svegliare l’amico, gli si avvicinò e si presentò. Gli disse, in varie lingue, di essere un soldato italiano fuggito da Dachau e aggiunse di essere anche lui un allevatore di professione; poi, incoraggiato dall’atteggiamento benevolo del vecchio, gli rivelò di essere in compagnia di un altro italiano. Il vecchio, commosso, lo abbracciò e assieme andarono a svegliare Elio. Subito i due italiani aiutarono il vecchio a condurre il bestiame nella stalla per la mungitura.
 Il signor Scheldman, così si chiamava il vecchio, li presentò dopo in famiglia e i due divennero graditi e utili ospiti. Benigno ed Elio rimasero presso questa famiglia fino alla sconfitta della Germania, avvenuta nell’aprile del 1945.

Benigno, con la famiglia Scheldman

Essi trascorsero tutto questo tempo in piena armonia con la famiglia; si rivelarono, riconoscenti, un prezioso aiuto per la fattoria, perdurando la mancanza di manodopera a causa della guerra. 
Venuti a conoscenza della fine della guerra, i due decisero di rientrare in Italia. Il giorno della partenza, in casa Scheldman scese il silenzio; seguirono gli abbracci, le lacrime, i mille ringraziamenti e le promesse di un arrivederci a presto, da parte di tutti. 
Benigno ed Elio, con un generoso gruzzoletto di franchi francesi donati loro dalla famiglia belga, partirono per la Francia in treno. A dimostrazione del grande affetto e della riconoscenza verso gli Scheldman, Benigno, rientrato a Riola, negli anni a seguire li ospiterà in casa sua numerose volte e sempre d’estate, come di loro gradimento. Un bellissimo e raro esempio di umana riconoscenza.

Testo a cura di Giuseppe Mocci - Tutti i diritti riservati

Editing G.Linzas - Foto fam. Daga

venerdì 25 novembre 2011

CÒNTUSU : “SU SPADU” - di Giuseppe Mocci


foto d'epoca: pescatori nello Stagno 

Fino agli anni sessanta del secolo scorso lo Stagno di Cabras  (denominato prima Mare 'e Pontis), ricadente per 2/3 nel Comune di Cabras e per 1/3 nel nostro Comune, era di proprietà privata. Lo amministrava la società Pontis, di cui facevano parte Don Efisio Carta, socio maggioritario, e i suoi numerosi parenti. 
Gli antenati di Don Efisio lo acquistarono dal Marchese di Oristano, Damiano Nurra, che, a sua volta, lo aveva acquistato dai Conti Vivaldi Pasqua di Genova nel 1750. 
Questi proprietari venivano chiamati dalla stampa sarda I Baroni della Lagunae amministravano le peschiere di tutto il comprensorio, che comprendeva la grande peschiera di Pontis, in agro di Cabras e la piccola peschiera, Pischeredda, in agro di Nurachi/Riola.
Non solo, ma questa società deteneva anche il diritto esclusivo di pesca lungo il fiume Rio Mannu, fino a Ponti Zoppu, in agro di Tramatza.
A Riola, allora, esercitavano la pesca, in tutto il compendio dello Stagno di Mare 'e Pontis e di Mare 'e Foghe, una trentina di pescatori. Questi, però, potevano pescare solo a domanda e a pagamento in determinati periodi dell’anno e con limitati strumenti, imposti da un rigido regolamento.
Naturalmente, come da antichissima tradizione, molti altri riolesi praticavano la pesca di frodo nel compendio privato e la pesca libera nelle numerose paludi del Sinis di proprietà del Comune di Riola.

scorcio dello Stagno di Cabras

Sulla pesca nel grande compendio vigeva un rigidissmo regolamento che i pescatori autorizzati dovevano osservare scrupolosamente e sotto il controllo severissimo di numerose guardie giurate, dipendenti dalla società Pontis. 
A capo di queste guardie era preposto un uomo diventato famoso per la sua severità e la spietata lotta ai pescatori abusivi (is 'spadõerisi) o trasgressori del regolamento de “is Meris”.
Questo individuo, soprannominato Su Spadu, cabrarese, in compagnia di un altro suo collega, era presente da per tutto.
Egli si muoveva in barca o in bicicletta, e sempre armato. Quando arrivava in bicicletta tutti lo riconoscevano e lo apostrofavano con parole di malaugurio. Qualcuno, spesso, lo precedeva di gran corsa per avvisare i pescatori di frodo lungo il fiume.
Quando "Su Spadu" arrivava in bicicletta raramente trovava intrusi; mentre quando arrivava in barca, di sorpresa, arrestava sempre qualcuno. Si dice che, in quarant’anni di servizio, abbia arrestato e fatto condannare centinaia di riolesi. 
Famosa è rimasta la condanna a tre mesi con la condizionale inflitta a un ricco possidente, notoriamente non pescatore.
Si racconta che questi, in una giornata afosa di Agosto, di rientro dalla campagna, fosse sceso sul fiume, sotto il ponte, per un urgentissimo bisogno corporeo.
Mentre il malcapitato provvedeva a lavarsi le mani e a rimettersi in ordine, si sentì intimare l’alt da “Su Spadu”, apparso improvvisamente col fucile in mano. Il ricco possidente venne condotto in caserma per gli accertamenti e denunciato per pesca di frodo. Seguì poi la condanna. 
Per fortuna dei pescatori professionali e dilettanti, non solo di Riola, ma di tutta la zona, questa schiavitù finì per l’intervento della Regione Autonoma della Sardegna, che, con apposita legge emanata nella seconda metà degli anni ’50 (la legge regionale n. 39 del 1956) e successivamente con decreto del Presidente della Regione del ‘65, abolì i diritti esclusivi di pesca in acque interne; ma, soprattutto, per le lotte dei pescatori che si batterono durante tutti gli anni ‘60 e ‘70 perché la legge fosse applicata. 
La Regione, solo dopo una lunga vertenza con i proprietari, riscattò il famoso compendio, dove ora lavorano centinaia di pescatori, inquadrati in cooperative facenti parte del Consorzio che ha in affidamento  la gestione dello stesso compendio ittico.

Testo di Giuseppe Mocci - Tutti i diritti riservati.



giovedì 15 settembre 2011

Còntusu: “FRAITZU” - di Giuseppe Mocci

All'inizio degli anni '30 del secolo scorso un agricoltore benestante, soprannominato Fraitzu, aprì uno studio fotografico in via Sant’Anna, avendo appreso l’arte qualche anno prima a Roma dove aveva fatto “su permanenti”, cioè il servizio militare.
La clientela era scarsa, ma lui non si scoraggiò; scattò anche diverse fotografie di Riola, che trasformò in cartoline con i “Saluti da Riola”.

cartolina di Riola realizzata dal fotografo "Fraitzu" negli anni '30 

Spese una fortuna, ma i risultati furono deludenti. I familiari, giustamente, non lo aiutarono e dovette abbandonare il mestiere.
Fraitzu, testardo peggio di un mulo, non si scoraggiò e tentò di ottenere un finanziamento bancario per costruire e gestire una sala cinematografica. Naturalmente, data la mancanza di garanzie, non ottenne il prestito e il suo progetto fallì.
Egli, oltre che sognatore, era anche credulone, un moderno Don Chisciotte. Fece per un paio d’anni il cercatore di tesori, in giro per tutta la Sardegna, senza mai trovare nulla di interessante.
Fraitzu credeva anche nell’esistenza del Diavolo e a lui avrebbe venduto l’anima, pur di trovare la ricchezza.
Un sarto burlone, suo amico, venuto a sapere la cosa, un giorno gli propose un colloquio col Diavolo, con il quale, gli disse, era in contatto da molto tempo. Fraitzu accettò subito e chiese all’amico di stabilire luogo e data del colloquio.
Il nostro sarto, di nome Tommaso, nella sua sartoria riceveva spesso un gruppetto di amici, per dialogare e giocare a carte. Una sera comunicò loro l’idea che gli era venuta in mente per divertirsi alle spalle del povero Fraitzu, esponendo subito il suo programma che tutti accettarono.
La data dell'incontro fu fissata per un sabato notte in una vecchia casa abbandonata, appartenente a uno degli amici complici dell’inganno. La casa era inagibile, a due piani; il piano superiore insisteva su un tavolato, con un grosso foro al centro.
Il giorno stabilito per l’appuntamento gli amici si ritrovarono per mettere in scena lo scherzo (sa brulla). Il regista fece salire al piano superiore l’amico Tanieliccu, un giovane molto alto, magro e un po’ gobbo, nudo e mascherato da Diavolo con corna e forcone, ben sporco di fuliggine.
Il Diavolo, al richiamo di Tommaso, aveva il compito di scendere come una saetta dal buco del tavolato per rispondere alle domande di Fraitzu.
Un altro complice era stato sistemato, ben nascosto, nei pressi di un ponticello, di fronte all’oliveto di Signora Tzitza, sulla strada per Nurachi, col compito di uscire dal nascondiglio al momento del ritrovamento di un sacchetto di tela di juta da parte di Fraitzu e di salutarlo.
A mezzanotte di quel sabato, Fraitzu e Tommaso arrivarono nella casa stabilita per il colloquio e, acceso un lumicino, si fermarono proprio sotto il grande buco del tavolato.
Tommaso, tenendo per mano Fraitzu, gli disse:
Càstia, no tìmmasta, su tiau esti amigu miu. Dommandaddi su chi 'òisi!(1) e subito dopo pronunciò la frase convenuta con Tanieliccu:
Bẽi Coitedda, bẽi! Innoga ch’esti ũ amigu chi ti ‘òidi fueddai(2).
Coitedda, il Diavolo, si sprofondò sopra Fraitzu travolgendolo, mentre Tommaso spense il lumicino. Fraitzu, per niente spaventato, chiese subito al Diavolo:
Naramì Coitedda, innui potzu agattai ũ tesoru!(3). 
Rispose pronto Coitedda:
Bai in sa strada de Nurachi. Aintru de su pontigheddu, a fachi de su livàriu de sa Sannora Tzitza ddu esti ũ sacchitteddu prẽu de oru. 
Però, castia... chi non ti bìada nissũsu, chi no s’oru si furriada in crabõi!(4).
Finito il colloquio, Fraitzu, tutto raggiante, ringraziò Tommaso.
Il giorno dopo, all’alba, il nostro povero fotografo, tutto allegro, pensando già alla sala cinematografica che avrebbe potuto costruire con tutto quell’oro, si avviò verso il ponte indicatogli dal Diavolo.
Arrivato sul posto, si voltò a destra e a manca, poi si inchinò sotto il ponticello trovando il tanto sospirato tesoro.
Girandosi tutt’intorno, guardingo, nascose subito sotto la giacca il sacchetto, quando da un cespuglio vicino uscì un uomo che lo salutò amichevolmente.
Fraitzu, alquanto preoccupato per quella apparizione, corse a casa sua e, con mano tremante, aprì il sacchetto, che conteneva del carbone ancora caldo.
Tutto frastornato il credulone si recò subito dal sarto per raccontargli l’accaduto:
Tommasu, amigu miu caru, bisonzada a tzerriai ũ antra 'otta Coitedda, poitta su tesoru d’appu agattau, ma mi dd’adi scontzau ũ baodru chi fudi croccau accanta de su pontigheddu. 
Maradittu siàda! Scuminigau! 
M’adi saludau nendimì "bonzorno tziu Zuseppi" (così si chiamava Fraitzu). 
Cussu disgraziau adi biu tottu!(5).
Ansimando, si mise in ginocchio e continuò:
Faimì su pragheri... 
Nontesta faiddu torrai a Coitedda, s’amigu tuu! Ca chi arrannèssidi su zogu, deu a tia t’app’a fai intrai a tzìnema sèmpiri gràtisi!(6).
Il nostro sarto, fingendosi amareggiato per l’accaduto, serio, gli rispose:
Caru Zuseppi seu troppu arrannegau cũ tui! 
Deu immoi timmu Coitedda, poitta no éusu fattu su chi s’adi nau. 
No, no… mi dispràghidi, ma no potzu fai pru' nudda!(7).

Note:

1) Guarda, non aver paura, il diavolo è amico mio. Domandagli pure ciò che vuoi!
2) Vieni Coitedda, vieni! Qui c’è un amico che ti vuole parlare!
3) Dimmi dove posso trovare un tesoro!
4) Vai nella strada per Nurachi. Nel ponticello, di fronte all’olivetto della Signora Tzitza, c’è un sacchetto pieno d’oro. Però, stai attento che non ti veda nessuno, altrimenti l’oro si trasforma in carbone!
5) Tommaso, amico mio caro, bisogna chiamare un’altra volta Coitedda, perché il tesore l’ho trovato, ma è stato trasformato in carbone per colpa di un balordo che era coricato vicino al ponticello. Che sia maledetto! Scomunicato! Mi ha salutato dicendomi buongiorno Tziu Zuseppi. Quel disgraziato ha visto tutto!
6) Fammi il piacere, stanotte fai tornare Coitedda, il tuo amico! Se riesce il gioco, ti farò entrare al cinema sempre gratis!
7) Caro Giuseppe, sono molto arrabbiato con te. Io adesso ho troppa paura di Coitedda, perché non abbiamo fatto ciò che ci aveva detto. No,no… mi dispiace, ma non posso fare più nulla!

Testo di Giuseppe Mocci 

Revisione  dialetto riolese: B. Sulas
Foto storica tratta dal libro "Zenti Arrioresa" di Claudio A. Zoncu

mercoledì 20 aprile 2011

Il personaggio: ENRICO SUELLA, "UN PERICOLOSO SOVVERSIVO"

Enrico Suella

Enrico Suella è stato, senza dubbio,  un personaggio degno di nota, vissuto tra la fine del '800 e la prima metà del secolo scorso.
Antifascista convinto, partecipò attivamente alla vita politica (prima nel Partito Sardo d’Azione, fin dalla costituzione nel 1921, poi nel Partito Comunista),  perseguendo ideali di uguaglianza e di giustizia sociale durante tutta la sua esistenza e trasmettendo gli stessi valori ai propri figli.
Nato nel 1885 a Elmas, si arruolò da giovane nel corpo delle Guardie di Finanza da cui fu espulso nei primi anni del regime poiché si rifiutò di firmare la tessera del Partito Nazionale Fascista. 
Nella seconda metà degli anni ‘20  si trasferì dall’Iglesiente ad Oristano, dove impiantò una piccola fabbrica di crine vegetale, con sede in via Tirso  (all’epoca il crine ricavato dalle foglie della palma nana del Sinis era utilizzato per la realizzazione dei materassi).
A causa delle sue idee avverse al fascismo, incontrò notevoli ostacoli e difficoltà  che lo costrinsero alla chiusura dell’attività dopo pochi anni. 

operaie della fabbrica di crine del Sig. Suella ad Oristano, anni '20 - foto fam. Suella

Nel 1937 Suella fu denunciato come autore di manifesti di propaganda sovversiva e confinato a Riola.
Chi l'ha conosciuto lo ricorda come un signore molto distinto ma privo di mezzi di sostentamento, che riusciva a sopravvivere grazie ai modesti compensi per i lavori da scrivano e per quelli della moglie Maria, materassaia: “era un uomo simpatico e pacifico; era  anche elegante e non gli mancava mai il cappello e la cravatta”. Insomma, un autentico gentiluomo.
Negli anni seguenti alla guerra costituì a Riola la sezione locale del Partito Comunista, che ebbe sede inizialmente nell’attuale  via Mariano.

 
sezione Partito Comunista Riola Sardo, primi anni '50 - foto fam.Suella 

Enrico Suella morì nel 1955.
Coerentemente  con i suoi principi, pur rispettando le idee altrui, volle un funerale civile. Al corteo funebre parteciparono le alte cariche del partito dell’epoca; fu accompagnato al cimitero con numerose bandiere rosse.

Riproponiamo per gentile concessione di Giuseppe Mocci “L’antifascista e l’appuntato”, racconto che ricorda la figura di Enrico Suella,  già pubblicato sul quotidiano “La Nuova Sardegna” del 7 gennaio 2001 e nel libro di Nello Zoncu “Zenti Arrioresa".

g.l.

"L’ANTIFASCISTA E L’APPUNTATO" 
di Giuseppe Mocci

Negli anni che precedettero la guerra 40/45, detti anni dell’Era fascista, viveva nel mio paese un distinto signore, in età avanzata, proveniente dall’iglesiente.
Si diceva che lo avessero mandato in esilio a Riola, perché comunista sovversivo, molto pericoloso; già espulso dal Corpo delle Guardie di Finanza per non aver voluto firmare la tessera del Partito Nazionale Fascista.
Si chiamava Enrico Suella (1885-1955).
Privo di mezzi di sostentamento, il povero uomo riusciva a stento a sbarcare il lunario, anche perché veniva osteggiato dal Partito e dalle autorità locali. Egli viveva dei modestissimi compensi per occasionali lavori di scrivano e dei saltuari emolumenti che riusciva a percepire la moglie dal lavoro di materassaia.
Il sovversivo si era rivelato subito una persona tranquilla; faceva lunghe passeggiate, a passo lento e sempre dentro il paese; non usciva mai di notte. Egli era un uomo simpatico e pacifico; era  anche elegante e non gli mancava mai il cappello e la cravatta; era un gentil’uomo.
Io non riuscivo, allora, a capire il motivo per cui era costretto a vivere in esilio e perché venisse ricorrentemente arrestato.
Ricordo che quando si apprendeva dalla radio dell’imminente arrivo in Sardegna di qualche esponente del Governo o della Casa Reale, il povero uomo veniva prelevato, nottetempo, dai Carabinieri e condotto in carcere ad Oristano.
Questa operazione veniva fatta il giorno prima dell’arrivo di detti personaggi. In quelle occasioni il signor Suella metteva in croce la povera moglie, perché gli facesse la provvista di sigari da fumare in carcere. Ricordo che le diceva:
Maria, duminiga beninti de Roma is amigus mius, procuramì una scorta de sigarettas”.

Enrico Suella con sua moglie Maria in età avanzata - foto fam. Suella

Altra circostanza che determinò una più severa e umiliante sorveglianza nei suoi confronti, si verificò in occasione dell’arrivo del pacco di Mussolini, inviato, si diceva, al Podestà, un certo cav. Pili, che durante la guerra 1915/18 era stato il superiore diretto del Duce.
Per quel giorno il Partito organizzò una grande manifestazione: saggio ginnico nelle scuole, sfilata per la via principale fino al Municipio, con canti patriottici e sventolìo di bandiere; apriva la sfilata il gruppo dei figli della lupa, seguivano i balilla, gli avanguardisti, i giovani fascisti, poi le donne rurali, gli ex combattenti e tutte le autorità civili e militari; mancava soltanto il parroco.
Arrivato il corteo in piazza del Municipio, la guardia municipale, in divisa e con le decorazioni di guerra sul petto, aprì il pacco che conteneva due stampi di legno, quattro barattoli e una lettera con le istruzioni.
I figli della lupa e noi balilla attendevamo l’apertura dei barattoli, convinti che contenessero caramelle, invece contenevano vernice nera da usare con gli stampi per la riproduzione dell’immagine di Mussolini, a mezzo busto e con la scritta: “Duce”.
In quella stessa sera, su alcune facciate delle case, lungo le due vie principali, venne stampata l’immagine del Duce.
Durante la notte però avvenne un imprevisto, un fatto molto grave accaduto poi in un paese fra i più fascisti della Provincia; un’immagine di Mussolini era stata imbrattata.
La mattina successiva venne convocata una riunione del Partito e venne invitato anche il Maresciallo della locale stazione dei Carabinieri, data la gravità dell’accaduto: oltraggio al capo del Governo.
Tutti i camerati concordarono sul nome dell’oltraggiatore: è stato il comunista!” urlarono furiosi e ben determinati a vendicarsi, alcuni agitando il manganello o la bottiglia dell’olio di ricino.
Il maresciallo intervenne, invitando tutti alla calma e propose la formazione di una ronda speciale, composta da carabinieri e militi, al comando di un appuntato della benemerita; personaggio molto noto per lo zelo in servizio e soprannominato Sfasciachitarre, perché ai giovani che facevano le serenate oltre l’orario consentito, sequestrava la chitarra e la sfasciava loro in testa.
Venne accolta la proposta del maresciallo e quella stessa notte entrò in servizio la ronda per presidiare dall’esterno la casa del comunista.
Questi, forse, non si accorse di nulla, nonostante lo schiamazzo e le ingiurie degli assedianti; oppure il nostro dormiva tranquillo, come al solito.
Il mattino seguente, “Sfasciachitarre”, rientrando in caserma, si accorse che un’altra immagine del Duce era stata imbrattata; sbiancò in viso e si sentì male; non andò più in caserma, ma fece ritorno a casa, molto preoccupato. Dopo aver raccontato l’accaduto alla moglie, decise di marcare visita medica, per la prima volta dopo trenta anni di onorato ed encomiabile servizio.
Il poveretto raccontò che era stato beffato da alcuni suoi amici, incontrati mentre facevano i preparativi per raggiungere i campi e lui completava l’ultimo giro di ronda.
Questi amici lo avevano invitato in cantina a bere la vernaccia, ma gli avevano anche  giocato un brutto tiro; uno della comitiva, conosciuto come il burlone del paese, inosservato, andò ad imbrattare l’immagine del Duce.
Intanto scoppiò la II guerra mondiale e nessuno si curò più del Duce. Solo “Sfasciachitarre” non dimenticò l’affronto.
Caduto il fascismo, egli volle riabilitarsi; invitò gli amici della famosa cantina e dichiarò loro:
“Signori, quando voi mi invitaste a bere la vernaccia in quella notte dell’imbrattamento dell’immagine del Duce, io capii subito le vostre intenzioni e vi lasciai fare, perché ero anch’io un antifascista”.
Gli amici lo ringraziarono, ma egli non accettò comunque la proposta del solito burlone di farsi segnalare per una promozione al merito.


Si ringraziano la famiglia Suella e Giuseppe Mocci per la collaborazione e la disponibilità.

domenica 13 marzo 2011

Efisio Zoncu, un poeta Riolese da riscoprire


Efisio Zoncu (1893-1959)

Efisio Zoncu, nacque a Riola il 21 Marzo del 1893, ed ivi morì il 26 Novembre del 1959 a soli 66 anni.
La sua fu un’esistenza vissuta accanto alla sua adorata moglie  (Maria Manca, sa maista) che tanto amò.
Fu marinaio, poeta, agricoltore. Dopo gli studi ginnasiali, a diciassette anni, si arruolò in Marina.
La prima poesia la compose nel 1914, d’ispirazione patriottica, dal titolo: “Ai lontani fratelli irredenti”, invitandoli ad attendere ma anche a prepararsi “fedeli e possenti” alla guerra di liberazione dal giogo straniero.
Per tutto il periodo della Grande Guerra egli compose alcune bellissime poesie sui nobilissimi sentimenti dell’amor patrio e della famiglia.
Egli scrisse con tanto affetto e rimpianto dei suoi familiari, ai quali dedicò molti dei suoi componimenti.
Non si dimenticò del suo paese natìo, del quale scrisse: “Ai piè d’un silenzioso fiumicello dell’ubertosa valle di Oristano in Campidano giace ridente, pittoresco e bello il mio paesello”.
Con la fine della guerra, nel 1918, il nostro diede inizio ad una nuova serie di componimenti, ispirati tutti e solo dal grande amore per la sua donna.

Maria Manca (sa Maista)

Per la sua adorata Maria infatti egli scorderà i suoi primi amori: la Marina e la poesia. Ricambiato dal profondo amore della sua amata, si congedò e si sposò.
Pago di tutto, butterà alle ortiche la penna e si dedicherà con grande passione ai lavori dei campi, assistito sempre dall’affetto e dalla più profonda stima e comprensione della moglie.

Recensione di Giuseppe Mocci, già pubblicata nel quotidiano La Nuova Sardegna del 10/10/2000 e nel libro "Zenti Arrioresa" di Nello Zoncu


 

 
IL MIO VILLAGGIO
Ai miei fratelli e sorelle care

Ai pie' d’un silenzioso fiumicello
dell’ubertosa valle d’Oristano
- in Campidano -
giace ridente, pittoresco e bello 
il mio paesello.

Di mandorli fioriti e melograno,
di pampini e d’ulivo è ricoperto;       
e, in verde serto,
cinge il villaggio un rigoglioso piano
d’orzo e di grano.

Sono piccole case a pianterreno,
deposito di vino e di sementi;
e al sol splendenti,
nel bel libero ciel chiaro e sereno,
campi di fieno.

Un palazzetto non ancor costrutto,
una chiesetta di remoto stile,
un campanile,
un ponticello, un nuraghe distrutto,
ed ecco tutto.

Per i sentier scoscesi e malandati,
sciami di passerotti svolazzanti,
e cinguettanti;
un tramestìo di villici abbronzati,
affaccendati.

Un calpestìo di pecore e d’armenti,
d’indomiti cavalli ed asinelli
focosi e belli;
un tintinnìo d’agricoli strumenti
ferrei e lucenti.

Sorride in cielo eterna primavera      
sulla campagna tutta sfavillante;
e il sol costante
brilla gioconda sulla terra austera
di stirpe fiera.

E dal placido mar che lungi tace
spira una fresca serotina brezza
come carezza;
regna sul borgo che solenne giace
amore e pace.

Gallipoli – Aprile 1915


CAVALLONI…..

Cavalloni impetuosi e spumeggianti
che v’avventate contro le scogliere,
come mandre fameliche di fiere,
io non vi temo.

 L’ira dei giganti marosi,
 nelle oceaniche tempeste,
 ben altre volte impavido ho sfidato;
 ed in quell’ore tragiche e funeste
 il mio cuor non ha pianto, né tremato.

Di voi in balìa, e con eguale sorte,
pel mondo navigai senza speranze;
spesso ballai con voi macabre danze:
le danze del terrore e della morte.

Or non più marinaio ardimentoso,
da questi lidi ancor vi guardo fisso,
ed un pensier m’assale tormentoso
non di lottar, con voi, ma nell’abisso
scomparire, e per sempre riposare
sull’alghe molli dell’ignote valli,
fra serti di gorgonie e di coralli,
lasciandomi dall’onde dondolare.

Riola 4/11/1919


LA BANDIERA

Freme, sussulta, palpita,
dall’alto dell’antenna.
E libera, solenne,
al sole invitta spiegasi.
           
            Fiera ed ardita sventola,
            sacra alla nuova aurora,
            è giunta, è giunta l’ora
            sul mar silente mormora.

Canta le geste italiche,
dei martiri la Gloria,
e tutti alla Vittoria
lancia i suoi figli indomiti.

            Schiocca, sussurra ed agita
            al vento il Tricolore,
            e accende in ogni cuore,
            fiamma d’amor patriottico.

Splende, si snoda, sfolgora,
arcane note vibra,
e infonde in ogni fibra,
novella forza ai giovani.


L’ENIGMA
All’ignota “Birichina”

Non la conosco, nò, ma sento in me
qualcosa che m’attira e mi conquide;
non la conosco, ma non sò perché,
quando l’effigie guardo mi sorride.

E quando più la miro, Ella ancor più
le sue pupille fissa nelle mie.
E mi ridesta in cuor la gioventù,
m’addita dell’amor le ignote vie.

Le labbra par dischiuda, e in sua favella
tacitamente all’anima sussurra:
“vuoi tu meco goder vita novella?...”.

Ma tosto penso: “l’ironìa mi sferza!...”.
E’ un sogno questo, una chimera azzurra,
o il folletto Cupido che mi scherza??..

La Maddalena – Ottobre 1916


PENSIERI NOSTALGICI

Mentre la nave mia calma e silente,
scompare lentamente
nell’ampia solitudine dei mari,
i giorni lieti e cari,
alla mente chiamo, del passato,
ed a Colei ch’ho amato
corre insistente e lesto il mio pensiero
- per tacito sentiero -
e in Lei si posa. Della giovinezza
mia prima, ancor l’ebbrezza
e le gioie rimembro nella pupilla
e la viva scintilla
della passione, in cor forte m’ardèa.
Felice trascorrèa
la vita tra i fiori e la verzura,
e tutta la natura
mi sorridèa d’intorno. Ero giocondo
allor, perché del mondo
né spine io conoscèa, né disinganni,
or che passàro gli anni
felicità passò, passò l’amore;
non più freme d’ardore
l’animo mio. Tal come fugge l’onda
- che intorno mi circonda
 e si dilegua – i sogni miei fuggìro,
così, così svanìro,
le mie speranze care. Oh! Come passa,
come presto trapassa
ogni mortal vaghezza! Non ritorna
giammai, giammai ritorna
felicitade alcuna, non più, non più,
la speme, la gioventù,
mia bella ……..

Napoli – Novembre 1914


Si ringrazia Giuseppe Mocci per la preziosa collaborazione.